Francesco, giullare di Dio
1950
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Regista
Sfidare un film come Francesco, giullare di Dio significa sfidare l'idea stessa di narrazione cinematografica come l'abbiamo sempre concepita. Uscito nel 1950, nel pieno dell'onda lunga del Neorealismo che lui stesso aveva battezzato col fuoco e col sangue di Roma città aperta, Roberto Rossellini compie un'inversione a U che lasciò interdetti i suoi esegeti più dogmatici, specialmente quelli di matrice marxista. Abbandonata (in apparenza) la cronaca della devastazione post-bellica, il regista si ritira nel XIII secolo per filmare non la vita di San Francesco, ma l'incarnazione del suo spirito. Non un biopic, dunque, ma un poema cinematografico; non un dramma, ma una serie di epifanie. L'opera è un oggetto filmico tanto anomalo e radicale da sembrare, ancora oggi, provenire da un universo parallelo in cui il cinema ha seguito una traiettoria evolutiva completamente diversa, meno interessata all'intreccio e più alla contemplazione.
La struttura del film è il suo primo, e più audace, gesto di rottura. Adattando undici episodi dai Fioretti di San Francesco e dalla Vita di Frate Ginepro, Rossellini e il suo giovane co-sceneggiatore, un certo Federico Fellini (il cui tocco picaresco e il cui amore per i saltimbanchi e i folli di Dio sono già palpabili), rifiutano qualunque arco narrativo convenzionale. Il film non ha un inizio, uno sviluppo e una fine. È piuttosto una collana di perle, undici quadri viventi che si succedono con la logica non della causalità drammatica, ma della parabola spirituale. Ogni episodio è un koan francescano, un indovinello mistico che non chiede di essere risolto, ma vissuto. La celeberrima sequenza iniziale, con i frati che tornano da Roma sotto una pioggia torrenziale, girando in tondo nella gioia più pura per decidere dove andare a predicare, funge da dichiarazione di intenti: questo non sarà un viaggio da un punto A a un punto B, ma un'esplorazione circolare e gioiosa della fede. È un cinema che respira secondo un ritmo liturgico, non narrativo, anticipando di decenni le derive più contemplative di cineasti come Terrence Malick, il cui montaggio lirico e frammentato in The Tree of Life sembra quasi un'eco ipertrofica della semplicità rosselliniana.
Visivamente, Rossellini compie un miracolo di umiltà. La sua cinepresa, che aveva pedinato la disperazione per le strade di una Roma martoriata, qui si fa ancella della pittura. L'ispirazione non è il realismo fotografico, ma l'affresco medievale, in particolare il ciclo di Giotto nella Basilica Superiore di Assisi. Ogni inquadratura è un piccolo tableau, composto con una frontalità e una chiarezza quasi didascalica. I personaggi si muovono all'interno di un quadro definito, i loro gesti sono essenziali, privi di orpelli psicologici. Rossellini non usa il primo piano per scandagliare l'anima, come farà un Dreyer in La passione di Giovanna d'Arco, ma per registrare il volto come paesaggio dello spirito. E in questo paesaggio, accade la scelta più rivoluzionaria: far interpretare i frati da veri monaci del convento di Nocera Inferiore.
Questa non è una semplice trovata neorealista applicata a un contesto storico. È una decisione ontologica. Rossellini non chiede a questi uomini di "recitare" la fede; chiede loro di "essere" la loro fede davanti alla macchina da presa. Il risultato è sconcertante. Non c'è la minima traccia di artificio. Il sorriso di Frate Ginepro, la pazienza di Francesco (interpretato da frate Nazario Gerardi), la perplessità di fronte al tiranno Nicolaio non sono frutto della tecnica dell'Actor's Studio, ma emanazioni dirette di un'esistenza votata al Vangelo. In questo senso, Francesco, giullare di Dio è forse il più puro "documentario su un'idea" mai realizzato. Rossellini non documenta la vita di un santo, ma la possibilità vivente della santità. Pier Paolo Pasolini, che considerava questo film un capolavoro assoluto, imparò proprio da qui la sua lezione fondamentale per Il Vangelo secondo Matteo: il sacro non ha bisogno di essere interpretato, ma solo mostrato nella sua scabrosità e nella sua disarmante verità, usando volti presi dalla realtà, volti che portano inscritta la propria storia.
Il cuore pulsante del film risiede nel suo titolo. Francesco non è solo un "santo", figura ieratica e inaccessibile, ma un "giullare di Dio". È un trickster divino, un folle sacro la cui logica sovverte le convenzioni del mondo. È il Myskin de L'Idiota di Dostoevskij, un uomo la cui radicale bontà appare come idiozia agli occhi della società. Questa dimensione di sacra commedia, quasi di slapstick spirituale, esplode nell'episodio di Frate Ginepro che, per sfamare un confratello malato, taglia la zampa a un maiale vivo, scatenando le ire del proprietario. La risoluzione non è un sermone, ma un atto di umiliazione talmente estremo e sincero da tramutare la rabbia in perdono. È teologia incarnata nel gesto comico, è il paradosso cristiano messo in scena con la leggerezza di un'opera buffa. Questa fusione di sublime e grottesco, che Fellini eleverà a cifra stilistica della sua intera carriera, trova qui la sua radice più pura e francescana.
Collocato nel suo tempo, il film fu un gesto di coraggio e di profonda inattualità. L'Italia del 1950 era un paese spaccato, nel pieno della Guerra Fredda culturale tra l'influenza democristiana e l'egemonia intellettuale del Partito Comunista. Per molti critici di sinistra, l'opera di Rossellini apparve come una fuga nel misticismo, un tradimento della missione sociale del Neorealismo. Lo accusarono di essersi rifugiato in un passato consolatorio, ignorando le lotte operaie e le contraddizioni del presente. Ma questa lettura, per quanto comprensibile, è miope. In realtà, Francesco, giullare di Dio è un film profondamente politico, ma a un livello metastorico. La povertà scelta dai frati, la loro comunità basata sull'amore e sul servizio, la loro radicale opposizione alla logica del possesso e del potere, rappresentavano una critica tanto al nascente consumismo capitalista del blocco occidentale quanto all'ateismo di stato del blocco sovietico. Era una "terza via" spirituale, un'utopia anarchica e cristiana che proponeva, attraverso la semplicità evangelica, una rivoluzione più profonda di qualsiasi programma politico.
Rivederlo oggi significa compiere un'esperienza di purificazione dello sguardo. Abituati come siamo a un cinema iper-stimolante, narrativamente complesso e psicologicamente denso, la semplicità di Rossellini può inizialmente spiazzare. Ma se si accetta di rallentare, di abbandonare le pretese narrative e di entrare nel flusso contemplativo del film, si scopre un capolavoro di rara potenza. È un cinema che non vuole spiegare, ma mostrare. Non vuole convincere, ma contagiare con la sua letizia. Come un affresco di Giotto, non invecchia perché la sua forma è talmente essenziale da diventare atemporale. È un piccolo, silenzioso miracolo cinematografico, la prova che per toccare il trascendente non servono effetti speciali o grandi drammi, ma basta una cinepresa che guarda con amore e stupore il volto di un uomo, e in quel volto l'intera, folle e meravigliosa avventura della fede.
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