Grey Gardens
1976
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Un palazzo infestato non ha bisogno di spettri, ma solo di ricordi. Grey Gardens, la fatiscente magione degli Hamptons al centro dell'omonimo capolavoro dei fratelli Maysles, è forse la più grande casa stregata della storia del cinema, e i suoi fantasmi sono tremendamente, ostinatamente vivi. Edith Bouvier Beale ("Big Edie") e sua figlia, Edith ("Little Edie"), zia e cugina di Jacqueline Kennedy Onassis, non sono semplici soggetti di un documentario; sono le sacerdotesse di un culto domestico, le vestali di un fuoco spento da tempo, la cui cenere continuano a spargere sui loro corpi e tra le stanze invase da gatti, procioni e detriti di una vita che fu.
Vedere Grey Gardens nel 1975, e rivederlo oggi, è un'esperienza che trascende la curiosità voyeuristica per approdare a un territorio che confina con il gotico americano, la tragedia greca e una pièce di Samuel Beckett riscritta da Tennessee Williams. È un dramma da camera dove la camera è in decomposizione, un'elegia per un'aristocrazia WASP che si autodivora, un trattato esistenziale sulla performance del sé quando non è rimasto più alcun pubblico, se non una troupe cinematografica e una madre onnipresente.
Albert e David Maysles, pionieri del direct cinema, arrivarono a Grey Gardens quasi per caso, dopo che un progetto su Lee Radziwill, la sorella di Jackie O, andò a monte. Si trovarono di fronte a un universo autosufficiente, un microcosmo ermeticamente sigillato contro le ingiurie del tempo e della società. La loro cinepresa non è un occhio invisibile e oggettivo; è un catalizzatore, un confessore, un terzo personaggio silenzioso la cui presenza legittima e amplifica il rituale quotidiano delle due donne. La questione etica, che pure si pose all'epoca – i Maysles stanno sfruttando due donne vulnerabili o stanno dando loro la ribalta che hanno sempre desiderato? – si dissolve di fronte all'evidenza schiacciante: le Edie non sono vittime passive della lente, ma co-autrici attive della loro stessa leggenda. Little Edie, in particolare, con i suoi "costumi per la giornata" – gonne indossate come copricapi, maglioni legati in vita, calze di sicurezza fissate con una spilla – non è una reliquia impazzita, ma una proto-artista della performance, una Marchesa Casati decaduta che allestisce il suo spettacolo tra le rovine del suo impero.
La loro lingua è un idioletto fatto di recriminazioni cicliche, canzoni d'anteguerra canticchiate a mezza voce e aforismi di una lucidità disarmante ("It's very difficult to keep the line between the past and the present," confessa Little Edie, fornendo la chiave ermeneutica dell'intero film). Il loro dialogo è una partitura atonale in cui ogni nota di affetto è subito seguita da una dissonanza di risentimento. Big Edie, sdraiata a letto tra pile di spazzatura, accusa la figlia di averle impedito di avere una vita; Little Edie, danzando con una bandiera americana in un impeto di patriottismo surreale, accusa la madre di aver sabotato le sue ambizioni di ballerina a New York e un potenziale matrimonio con Joe Kennedy Jr. È una guerra di trincea psicologica combattuta per decenni, in cui ogni metro di indipendenza è stato perso e l'unica vittoria possibile è la sopravvivenza in simbiosi.
Il film è una straordinaria meditazione sul potere corrosivo e conservatore della memoria. Grey Gardens non è solo una casa, è un archivio, un magazzino dell'inconscio dove ogni oggetto è un significante saturo di storia. I ritratti di una Big Edie giovane e bellissima, la foto di Little Edie debuttante, i dischi di vinile, tutto contribuisce a creare un presente che è unicamente un'eco del passato. Come in un romanzo di William Faulkner, dove il passato non è mai morto, non è nemmeno passato, le due donne vivono in un eterno ritorno, rievocando e rinegoziando continuamente i traumi e i trionfi di un'epoca svanita. La loro reclusione non è solo fisica, ma temporale. Sono intrappolate nell'ambra dei loro stessi ricordi, un'ambra che si è scurita e crepata, ma che le preserva in una forma di stasi eterna.
La struttura narrativa, apparentemente casuale e frammentaria, mima perfettamente lo stato mentale delle sue protagoniste. Non c'è un arco evolutivo, non c'è una catarsi. C'è solo la ripetizione, il rito, la variazione sul tema. Big Edie che bolle il mais sul comodino, Little Edie che si lamenta dei procioni che hanno scavato un buco nel muro, il tutto in un flusso che ha la qualità onirica e disturbante di un film di David Lynch, se Lynch avesse deciso di girare un documentario sui parenti poveri di F. Scott Fitzgerald. L'accumulo di sporcizia, il caos visivo, la decadenza fisica dell'ambiente diventano una sorta di Merzbau di Kurt Schwitters, un'installazione involontaria costruita con i frammenti della vita, che trasforma lo squallore in una forma d'arte radicale e disperata.
Sotto la superficie eccentrica, Grey Gardens è un testo profondamente americano. Le Beale sono il rimosso di Camelot, il lato oscuro del sogno kennediano. Mentre Jackie costruiva un'icona di stile e potere, le sue parenti più prossime inscenavano la decostruzione di quella stessa classe sociale, mostrando la fragilità e l'assurdità che si celavano dietro la facciata di rispettabilità della East Coast. La loro "staunchness", la loro fiera capacità di resistere e di essere sé stesse fino alle estreme conseguenze, è una forma perversa e commovente di individualismo americano. Rifiutano di essere "salvate", di conformarsi, di pulire la casa. Scelgono, o forse sono costrette a scegliere, la libertà assoluta della marginalità.
La macchina da presa dei Maysles, a differenza di quella di molti documentaristi successivi, non giudica. Osserva con un misto di empatia, stupore e rispetto. C'è una tenerezza palpabile nel modo in cui filmano Little Edie mentre esegue i suoi balletti improvvisati o Big Edie che canta "Tea for Two" con una voce che è l'ombra di un'ombra. Non sono esemplari da studiare in un diorama antropologico, ma esseri umani complessi la cui tragedia è inseparabile dalla loro commedia. Il film riesce nel miracolo di renderle allo stesso tempo ridicole e sublimi, patetiche e regali.
In un'epoca di reality show che fabbricano drammi artificiali e personaggi monodimensionali, Grey Gardens rimane un monumento all'autenticità più radicale e inquietante. È un'opera che sfida ogni facile categorizzazione: non è solo un documentario, è un poema gotico, un'analisi psicologica, un saggio sociologico e una delle più grandi, e strane, storie d'amore mai portate sullo schermo. È l'equivalente cinematografico di una fotografia di Diane Arbus: un'incursione nell'insolito che rivela una verità universale sulla famiglia, l'identità e l'inesorabile, creativo disfacimento di tutte le cose. Un capolavoro la cui polvere, come quella che ricopre ogni superficie della casa, non si depositerà mai del tutto.
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