I bambini ci guardano
1943
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Regista
Lo sguardo di un bambino può essere un grimaldello. Può forzare la serratura di una porta blindata, quella dietro cui gli adulti nascondono le loro miserie, le loro bugie, le loro capitolazioni silenziose. Vittorio De Sica, nel 1943, in un’Italia che stava per implodere sotto il peso della propria tragedia storica, non si limita a usare questo sguardo come espediente narrativo. Lo trasforma in un dispositivo ottico, in una lente morale attraverso cui sezionare l’ipocrisia di un’intera classe sociale e, per estensione, di un’intera nazione. I bambini ci guardano non è semplicemente il film che anticipa la rivoluzione neorealista; è un terremoto che ne prepara il terreno, una crepa che si apre nel marmo levigato e posticcio del cinema dei "telefoni bianchi", rivelando il vuoto sottostante.
Il film è la cronaca di una disintegrazione, quella della famiglia borghese del piccolo Pricò. La madre Nina, bella, inquieta e insofferente, cede alla passione per un altro uomo, Roberto. Il padre Andrea, uomo mite e sconfitto in partenza, non riesce a contenere la catastrofe. In mezzo, appunto, c’è Pricò, interpretato da un Luciano De Ambrosis di quattro anni la cui performance non è recitazione, ma esistenza pura catturata su pellicola. De Sica, qui al suo primo, cruciale incontro con Cesare Zavattini, compie uno scarto epistemologico radicale: rifiuta il punto di vista onnisciente e si abbassa, letteralmente, ad altezza di bambino. La macchina da presa non si limita a seguire Pricò; in molti momenti, diventa Pricò. Le conversazioni degli adulti ci arrivano filtrate, smozzicate, comprese solo a metà. Le loro gambe, i loro gesti nervosi, i loro profili tesi sono spesso tutto ciò che vediamo, esattamente come un bambino percepisce un dramma di cui è vittima ma non artefice.
Questa scelta stilistica genera un’analogia letteraria quasi obbligata con Quel che sapeva Maisie di Henry James. Come la piccola Maisie, Pricò è il catalizzatore passivo e l'osservatore impotente della decomposizione morale dei suoi genitori. Ma se James orchestra un balletto psicologico sofisticato e verboso, De Sica e Zavattini lavorano per sottrazione, affidandosi alla potenza del non detto, all’eloquenza di un primo piano, al peso schiacciante di un silenzio. La tragedia di Pricò non risiede tanto negli eventi – l'adulterio, la separazione, il suicidio – quanto nella sua progressiva presa di coscienza. È un’educazione sentimentale al contrario, un apprendistato al dolore e al disincanto che culmina in un rifiuto totale del mondo degli adulti.
Il film è disseminato di sequenze che sono pugnalate al cuore. La scena al mare, ad Alassio, dove Nina ritrova il suo amante, è un capolavoro di tensione costruita attraverso dettagli minimali. Mentre i due amoreggiano, credendosi non visti, la cinepresa si sofferma su Pricò che costruisce castelli di sabbia, la sua apparente noncuranza che rende la loro colpa ancora più meschina. La sua successiva malattia, di natura chiaramente psicosomatica, non è un capriccio da bambino viziato, ma la reazione fisica a un veleno emotivo che ha dovuto ingerire. De Sica, che veniva dalla commedia leggera e dal ruolo di attore brillante, dimostra una sensibilità quasi soprannaturale nel dirigere il piccolo De Ambrosis. L'aneddoto vuole che non gli facesse imparare le battute, ma che gliele suggerisse momento per momento, giocando con lui fuori campo per ottenere reazioni autentiche, sguardi di una purezza e di un dolore lancinanti.
Questo approccio, che Zavattini avrebbe poi teorizzato nel suo concetto di "pedinamento" del reale, è la scintilla da cui divamperà l'incendio neorealista. I bambini ci guardano è ancora un film girato in studio, con attori professionisti (una struggente Isa Pola, un dolente Emilio Cigoli) e una struttura narrativa classica. Eppure, l'anima del film è già per strada, è già tra la gente comune. È nell'attenzione ai dettagli umili, nel modo in cui la crisi economica della famiglia si manifesta nella vendita dei mobili, nella necessità di mandare il bambino in collegio. Il film squarcia il velo della propaganda fascista che celebrava la famiglia come nucleo sano e incorruttibile della nazione, mostrandola invece come un'istituzione fragile, un inferno di egoismi privati e di felicità impossibile. Non è un film politico in senso stretto, ma la sua disamina spietata del microcosmo familiare assume una valenza politica devastante nel contesto del 1943. Mostrare un padre che si suicida per debolezza e una madre che sacrifica il figlio alla propria passione era un atto di un coraggio culturale inaudito.
Si potrebbe quasi vedere il film come un'opera crepuscolare, imparentata con la poesia di Gozzano o Corazzini. C'è la stessa attenzione per le "buone cose di pessimo gusto", per gli interni piccolo-borghesi, per un'atmosfera di malinconia e di sconfitta esistenziale. La casa di famiglia non è un nido, ma una prigione di oggetti e di abitudini stanche. Quando Nina se ne va, la sua assenza è palpabile, un vuoto che nemmeno il ritorno riesce a colmare. La colonna sonora di Renzo Rossellini (fratello di Roberto) asseconda magistralmente questo tono, con un tema principale che è una nenia infantile deformata, una melodia che evoca un'innocenza già perduta nel momento stesso in cui viene pronunciata.
Ma è nel finale che l'opera raggiunge le vette del capolavoro assoluto e si proietta nel futuro. Dopo il suicidio del padre, Nina va a prendere Pricò in collegio. Il bambino la vede arrivare, si ferma. Lei gli apre le braccia, sorridendo con una speranza disperata. E Pricò, dopo un'esitazione che dura un'eternità cinematografica, si volta e le dà le spalle. Lentamente, con un'andatura da automa, percorre il lungo, freddo corridoio del collegio, ignorando le chiamate della madre, e sparisce dietro una porta che si chiude. Fine. Questo rifiuto è uno degli atti più radicali e sconvolgenti della storia del cinema. Non è la corsa liberatoria di Antoine Doinel verso il mare ne I 400 colpi di Truffaut, uno sguardo interrogativo lanciato verso di noi. È un giudizio definitivo, inappellabile. Pricò non fugge verso un futuro incerto; si ritira in un presente senza affetto, scegliendo la solitudine istituzionale del collegio piuttosto che il mondo corrotto e inaffidabile degli adulti, incarnato da sua madre. Con quel gesto, il bambino smette di guardare e pronuncia la sua sentenza. È un finale che gela il sangue, molto più vicino alla spietata logica di un Michael Haneke che al sentimentalismo spesso associato (a torto) a De Sica.
I bambini ci guardano è un film che continua a fissarci a quasi un secolo di distanza. Ci fissa dalle macerie di un mondo che stava crollando e ci interroga sulle nostre responsabilità. È l'atto di nascita di un nuovo cinema, un cinema che ha trovato nell'etica della visione la sua più profonda ragione estetica. De Sica non ci mostra solo la tragedia di una famiglia, ma ci costringe a viverla attraverso gli occhi di chi non ha colpe, rendendo il nostro ruolo di spettatori quasi insopportabile. E in quello sguardo finale, in quella schiena che si allontana, c'è tutta la modernità di un cinema che ha smesso di voler consolare per iniziare, finalmente, a far pensare. E a far male.
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