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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Il conformista

1971

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Un film può essere un saggio, un poema, un teorema. Di rado riesce a essere tutte e tre le cose insieme. Bernardo Bertolucci, nel 1970, non dirige semplicemente un adattamento del romanzo di Moravia; forgia un trattato di estetica della decomposizione morale, un'autopsia visiva dell'anima di un uomo e, per sineddoche, di un'intera nazione che sceglie l'ombra per paura della luce. Il Conformista non è un film sul fascismo. È un film su come il fascismo appare, su come seduce attraverso l'ordine, la simmetria e la promessa di una normalità anestetizzante. È un'opera che, a più di cinquant'anni dalla sua uscita, continua a proiettare le sue lunghe e affilate ombre sulla nostra comprensione del cinema come linguaggio.

Il protagonista, Marcello Clerici, interpretato da un Jean-Louis Trintignant che si muove con la rigidità di un automa e lo sguardo di un animale in trappola, è il vuoto pneumatico al centro di un universo geometrico. Non è un ideologo, non è un fanatico; è qualcosa di infinitamente più terrificante: un uomo che desidera disperatamente essere normale. La sua adesione al regime non è una scelta politica, ma una terapia. Un tentativo di seppellire un trauma infantile, un incontro sessuale ambiguo e violento che lo ha marchiato con il sigillo della diversità. Per Clerici, la camicia nera è un'uniforme non tanto di potere, quanto di invisibilità. È il suo algoritmo morale: se tutti fanno la stessa cosa, se tutti obbediscono agli stessi ordini, allora l'anomalia individuale scompare nell'equazione collettiva. In questo, Clerici è un cugino dostoevskiano dei personaggi di Kafka, un uomo che cerca la salvezza non in Dio o nella rivoluzione, ma nella burocrazia, nell'atto di compilare un modulo che lo certifichi come "normale".

È qui che l'opera di Bertolucci trascende la pagina di Moravia e diventa puro cinema, un'architettura della psiche. Insieme al suo mago della luce, Vittorio Storaro, il regista costruisce un mondo che è la proiezione fisica dello stato mentale di Clerici. Le immense sale vuote del Ventennio, con le loro prospettive esasperate e le geometrie totalitarie, non sono semplici scenografie; sono cattedrali dell'angoscia, spazi mentali in cui l'individuo viene schiacciato dalla magniloquenza del collettivo. La fotografia di Storaro è una lezione magistrale che dialoga direttamente con la pittura, da Caravaggio per i suoi chiaroscuri drammatici a De Chirico per le sue piazze metafisiche e silenziose. La luce non illumina, ma definisce, scolpisce, imprigiona. Le onnipresenti veneziane proiettano sbarre di luce e ombra sui personaggi, trasformando ogni interno in una prigione psicologica. Siamo più vicini all'espressionismo tedesco di Murnau e Lang che al neorealismo italiano; la realtà esterna è deformata per riflettere la patologia interna.

La struttura narrativa del film, un labirinto di flashback incastonati nel viaggio in auto di Clerici verso il suo appuntamento con il delitto, è essa stessa una dichiarazione di intenti. Non è un racconto lineare, ma un flusso di coscienza rotto, una memoria che riaffiora a singhiozzi, disordinata e ossessiva come la mente del suo protagonista. È un montaggio che ricorda la frammentazione modernista di un T.S. Eliot, con il suo Marcello che potrebbe benissimo essere uno degli "Hollow Men", gli uomini vuoti, riempiti di paglia, che bisbigliano insieme "non con un boato ma con un lamento". Il suo viaggio verso l'assassinio del suo ex professore, Quadri, non è la progressione di un thriller, ma la discesa in un inferno personale dove ogni stazione è un ricordo, ogni ricordo una crepa nella facciata della sua normalità costruita.

Le figure femminili sono le forze gravitazionali che perturbano la sua orbita calcolata. Sua moglie, Giulia (Stefania Sandrelli), è il ritratto della mediocrità piccolo-borghese, una "normalità" così perfetta da sembrare una parodia. È infantile, frivola, un concentrato di tutti i cliché che Clerici crede di desiderare, ma la loro intimità è goffa, una performance priva di calore. E poi c'è Anna Quadri (Dominique Sanda), la moglie del professore, l'antitesi di Giulia. Libera, colta, bisessuale, politicamente impegnata. Anna è tutto ciò che Marcello ha represso, tutto ciò da cui fugge. La celeberrima scena del tango tra Giulia e Anna è un momento di pura epifania cinematografica: un istante di grazia, di attrazione autentica e pericolosa che esclude completamente Marcello. Lui le osserva, separato, incapace di partecipare a quella danza di libertà. La sua missione, quindi, non è solo eliminare un nemico politico, ma estinguere una possibilità di vita diversa, di cancellare lo specchio che gli mostra la sua stessa vacuità.

La produzione stessa del film è un aneddoto che ne illumina il genio. Storaro, ossessionato dall'idea di rappresentare un passato che incombe sul presente, utilizzò tecniche di illuminazione e filtri per creare una patina visiva che desse allo spettatore la sensazione di guardare un ricordo, non un evento in tempo reale. Il blu dominante negli esterni parigini, freddo e spettrale, si contrappone ai toni caldi e ocra degli interni romani, creando una dialettica cromatica tra la realtà del presente (la missione omicida) e il calore fittizio del nido conformista che Marcello cerca di costruire. Questa non è decorazione, è esegesi.

Il film si inserisce in un contesto culturale, quello degli anni '70 italiani, in cui l'analisi del fascismo non era più un semplice atto di condanna storica, ma un'indagine psicanalitica sulle sue radici. Bertolucci, intellettuale marxista, non è interessato a creare un pamphlet antifascista. È interessato a smontare il meccanismo psicologico che porta un individuo a barattare la propria libertà per la sicurezza del gregge. È un'operazione che lo avvicina a Fassbinder in Germania, che con il suo "matrimonio di Maria Braun" avrebbe esplorato in modo simile le nevrosi di una nazione nel dopoguerra. Ma se Fassbinder usa il mélo, Bertolucci usa l'opera, un melodramma grandioso e gelido, dove le passioni sono stilizzate e le emozioni congelate in tableaux vivants di abbagliante bellezza.

L'atto finale, l'omicidio di Quadri nella foresta, è di una brutalità quasi insostenibile, resa ancora più agghiacciante dalla sua bellezza formale. La luce del tramonto che filtra tra gli alberi, la neve che attutisce i suoni, la corsa disperata di Anna: tutto è coreografato come un balletto macabro. Marcello, che avrebbe dovuto compiere l'atto, rimane paralizzato in macchina, un voyeur della propria abiezione, incapace persino di essere protagonista del proprio male. La sua caduta non è tragica, è patetica. E lo è ancora di più nella scena finale, dopo la caduta del regime, quando in una Roma notturna e caotica, grida e accusa un suo ex camerata, tentando di conformarsi al nuovo ordine con la stessa disperata rapidità con cui aveva abbracciato il precedente. Non ha imparato nulla. Il vuoto non può imparare, può solo essere riempito da ciò che lo circonda.

Il Conformista è un capolavoro vertiginoso perché dimostra che lo stile non è un accessorio della sostanza, ma è la sostanza stessa. È un film che si deve guardare come si legge un testo complesso, decifrandone i simboli, analizzandone la sintassi visiva, cogliendone le citazioni implicite. È la dimostrazione che il cinema, nella sua forma più alta, può essere uno strumento di indagine filosofica potente quanto un romanzo o un saggio, capace di esplorare gli abissi dell'animo umano non solo attraverso le parole, ma attraverso la luce, il colore e lo spazio. Un'opera la cui perfezione formale è tanto seducente quanto terrificante, proprio come l'ideologia che mette in scena. Un pilastro inamovibile di qualsiasi canone cinematografico che si rispetti.

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