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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Il posto

1961

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La macchina da scrivere non è uno strumento. È un organismo. Il suo ticchettio non è un suono. È un battito cardiaco. Il foglio che scorre sul rullo non è carta. È il nastro di una vita che si consuma, scandita da margini e interlinee. Ermanno Olmi, con la grazia di un entomologo e l'empatia di un santo, non ha girato un film sul mondo del lavoro; ha orchestrato un requiem per l'individuo, una sinfonia dell'alienazione in cui la più terrificante delle distopie non è quella di un futuro fantascientifico, ma quella, spaventosamente tangibile, del "posto fisso".

Il Posto è un'opera che respira l'aria rarefatta di quelle creazioni che ingannano lo spettatore con la loro apparente semplicità. Sotto la superficie neorealista, sotto la cronaca quasi documentaristica del giovane Domenico Cantoni che dalla provincia scende a Milano per un concorso in una grande azienda, si agita un abisso kafkiano. La corporazione senza nome, con i suoi corridoi labirintici, i suoi esami psicologici assurdi e la sua gerarchia imperscrutabile, non è un semplice luogo di lavoro: è il Castello. Domenico, come l'agrimensore K., è un pellegrino in cerca di accesso a una cittadella che promette sicurezza in cambio della sua stessa essenza. Ma a differenza dell'eroe di Kafka, la tragedia di Domenico è che lui, alla fine, riuscirà a entrare.

Il contesto è il Miracolo Economico italiano, un'esplosione di modernità che Olmi sceglie di raccontare non attraverso le ciminiere fumanti o le automobili scintillanti, ma attraverso il suo costo umano, silenzioso e invisibile. Il film è un controcanto desolato all'epica trionfalistica del progresso. La Milano che accoglie Domenico è una città di geometrie severe e spazi impersonali, un paesaggio metafisico degno di De Chirico, dove l'essere umano appare rimpicciolito, un'anomalia in un mondo progettato per la funzione e l'efficienza. La cinepresa di Olmi, con una precisione che ricorda le composizioni di Ozu, intrappola i personaggi in griglie architettoniche, finestre, porte e file di scrivanie che prefigurano la loro prigione esistenziale. Non è un caso che, quando Domenico e la dolce Antonietta (una Loredana Detto dalla fragilità disarmante) trovano un momento di tregua, lo facciano in un caffè affollato o per le strade caotiche, luoghi in cui l'ordine disumano della corporazione non è ancora riuscito a penetrare.

Domenico, interpretato da un non-professionista, Sandro Panseri, la cui goffaggine e il cui sguardo perennemente spaesato sono di una veridicità lancinante, è l'archetipo dell'uomo senza qualità di Musil catapultato in un mondo che esige solo quantità. È un foglio bianco su cui il sistema imprimerà i suoi timbri. La sua avventura è un rito di passaggio al contrario: non un'iniziazione alla vita adulta, ma una spoliazione metodica di ogni anelito giovanile. La breve, casta parentesi romantica con Antonietta non è una sottotrama amorosa; è l'ultimo bagliore di un'anima prima della sua estinzione programmata. La loro timidezza, i loro dialoghi impacciati, rappresentano l'ultimo baluardo di un'umanità autentica e non ancora standardizzata, destinata a essere archiviata come una pratica qualsiasi.

È impossibile non vedere Il Posto come la controparte tragica e umanista de L'appartamento di Billy Wilder, uscito solo un anno prima. Se C.C. Baxter è un cinico calcolatore che affitta il suo appartamento per scalare la gerarchia aziendale, Domenico è un'anima pura che viene semplicemente digerita da essa. Wilder usa la commedia nera per esporre la corruzione morale del capitalismo americano; Olmi usa un lirismo sommesso per piangere la morte spirituale causata dalla burocrazia europea. E se Tati, in Playtime, trasformerà questo stesso paesaggio di vetro e acciaio in un balletto comico sull'incomunicabilità moderna, Olmi lo filma come un cimitero di speranze. La folla di impiegati che entra ed esce dall'edificio non è diversa dalla processione di anime dannate che T.S. Eliot descrive in The Waste Land mentre attraversa il London Bridge: "non avrei mai creduto che morte tanta gente avesse disfatta".

La disamina di Olmi si fa quasi etologica nell'osservazione dei riti e dei comportamenti degli impiegati più anziani. I veterani dell'ufficio sono fantasmi, spettri di ciò che Domenico diventerà. C'è l'uomo che misura la corrente d'aria, quello che si lamenta del rumore, quello che spia i colleghi. Ogni loro gesto è un tic, un riflesso condizionato sviluppato in anni di cattività. La scena del veglione di Capodanno aziendale è un capolavoro di crudeltà e pietà. In questo breve frangente di caos controllato, gli impiegati tentano goffamente di recuperare una parvenza di vitalità, di scimmiottare la gioia. È un carnevale malinconico, una liberazione temporanea che rende solo più amaro il ritorno alla norma, il ritorno al ronzio dei neon e al silenzio operoso delle scrivanie. È qui che Domenico assiste al tentativo di suicidio di un impiegato disperato, un presagio che egli, nella sua innocenza, non può ancora decifrare.

E poi c'è il finale, uno dei più devastanti della storia del cinema. Domenico, dopo un'attesa logorante nel corridoio dei "sospesi" — un Purgatorio burocratico —, ottiene finalmente il suo "posto". È la scrivania di un impiegato appena morto. Il suo primo gesto non è di soddisfazione, ma di disagio. Si siede, piccolo e inadeguato, in un avamposto che sa di morte. Non c'è trionfo. Non c'è sollievo. C'è solo l'inizio della fine. E in quel momento, Olmi compie il suo miracolo sonoro. Il rumore del ciclostile nella stanza accanto, che fino a quel momento era stato un semplice suono d'ambiente, cresce, diventa assordante, ritmico, inesorabile. È il respiro del Leviatano. È il metronomo che scandirà il resto della sua esistenza. È il suono della sua anima che viene timbrata, duplicata e archiviata.

In questo finale, Domenico Cantoni diventa il progenitore di tutti i futuri droni da ufficio del cinema e della letteratura. È Bartleby lo scrivano prima che impari a dire "preferirei di no". È Sam Lowry di Brazil prima che la sua fantasia prenda il sopravvento sulla realtà opprimente. È l'impiegato senza nome di Fight Club prima dell'incontro con Tyler Durden. Ma la sua tragedia è più sottile, e per questo più universale. Non c'è ribellione, non c'è fuga. C'è solo una silenziosa, terribile accettazione. Il Posto ci insegna che il vero orrore non è l'eccezione, ma la norma. Non è la tirannia palese, ma il comfort rassicurante della servitù volontaria. Il film di Olmi, a più di sessant'anni dalla sua uscita, rimane un monumento spettrale, un monito sussurrato sulla natura del compromesso e sul prezzo che paghiamo per un posto sicuro nel mondo. Un posto che, troppo spesso, è solo una scrivania vuota in attesa del prossimo fantasma.

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