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Il vento

1928

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Un ululato primordiale percorre la spina dorsale del cinema. Non ha voce, eppure è il suono più assordante della storia della settima arte. È il respiro di un dio crudele e indifferente, una forza elementale che non distrugge per malizia, ma semplicemente perché esistere è il suo unico imperativo. Questo sibilo eterno, questa sinfonia della polvere e dell'oblio, è il vero protagonista de Il vento, l'opera terminale e forse suprema di Victor Sjöström in terra americana, un film che si erge al crepuscolo del muto come un monolito eroso da una tempesta senza fine.

Sulla carta, la trama è di una semplicità quasi archetipica, un canovaccio da melodramma di frontiera. Letty Mason (Lillian Gish), una delicata e "civilizzata" gentildonna della Virginia, si trasferisce in un'arida e desolata prateria del Texas per vivere con il cugino. Ma il West che trova non è quello epico e promettente di John Ford; è un purgatorio di sabbia e solitudine, un paesaggio dell'anima che ricorda più le lande desolate della Svezia natia di Sjöström che le praterie del mito americano. In questo vuoto pneumatico, l'unico agente dinamico è il vento del nord, il "Norther", che soffia incessantemente, portando con sé sabbia che si insinua ovunque – nelle case, nei letti, nel cibo e, soprattutto, nella mente.

La performance di Lillian Gish è un saggio di recitazione che trascende l'epoca. In un'era dominata da gesti enfatici e pantomime codificate, la Gish costruisce il crollo psicologico di Letty con una modernità sconcertante. Il suo corpo minuto diventa il sismografo di un terrore crescente. I suoi occhi, due pozzi di panico spalancati su un abisso interiore, non si limitano a guardare: assorbono l'ostilità del mondo. È un'interpretazione che anticipa di decenni la vulnerabilità nevrotica delle eroine di Bergman o la disintegrazione psicofisica di Catherine Deneuve in Repulsion di Polanski. Come il personaggio senza nome de La carta da parati gialla di Charlotte Perkins Gilman, Letty è una donna la cui psiche si sfalda sotto la pressione di un ambiente che non può né comprendere né controllare. La sua prigione non è una stanza, ma l'infinita, claustrofobica vastità del deserto.

Sjöström, maestro del cinema scandinavo abituato a filmare la natura come specchio dell'anima (quello che i critici svedesi chiamano Själalandskap, "paesaggio dell'anima"), applica questa sensibilità a un genere intrinsecamente americano, il western, e lo svuota dall'interno. Il vento non è un western; è un anti-western. È un horror psicologico travestito da dramma di frontiera. L'antagonista non è un pistolero dal grilletto facile o un pellerossa minaccioso, ma un'entità invisibile, impersonale e onnipresente. Il vento è una sorta di creatura lovecraftiana, un Grande Antico atmosferico la cui mera esistenza è sufficiente a erodere la sanità mentale. Le sequenze in cui la sabbia filtra sotto la porta, accumulandosi in piccoli, sinistri cumuli, hanno la stessa valenza perturbante della muffa che si espande sui muri di un racconto di Poe. La casa, simbolo di riparo e civiltà, si rivela una membrana porosa, un'illusione di sicurezza in un universo dominato dal caos.

La regia di Sjöström è un miracolo di espressionismo applicato. Se nel cinema tedesco coevo gli ambienti deformati riflettevano una distorsione interiore, qui è l'ambiente reale, implacabile, a causare la deformazione. Girato in condizioni proibitive nel deserto del Mojave, con temperature infernali e otto gigantesche eliche di aeroplano per simulare le tempeste, il film possiede una fisicità quasi documentaristica. Si sente il calore, si percepisce la grana della sabbia sulla pelle. Sjöström non si limita a rappresentare il vento; lo evoca, lo materializza. L'immagine ricorrente del "cavallo fantasma", uno stallone spettrale che galoppa tra le nubi di polvere, è una proiezione del subconscio di Letty, un simbolo della brutalità selvaggia e della sessualità repressa che la circonda e che finirà per violarla nella persona del viscido Wirt Roddy.

L'analisi del film non può prescindere dalla sua natura meta-testuale. Realizzato nel 1928, Il vento è uno degli ultimi, grandiosi capolavori dell'era del muto, e sembra quasi consapevole del proprio status crepuscolare. È un film ossessionato da un suono che non possiamo sentire. Il suo potere risiede proprio in questo silenzio assordante. Lo spettatore è costretto a immaginare l'ululato incessante, a proiettare il proprio disagio acustico sulle immagini disperate della Gish che si tappa le orecchie. Se il sonoro fosse arrivato solo un paio d'anni prima, Il vento sarebbe stato un film completamente diverso, probabilmente meno potente. Il suo silenzio lo rende universale, trasformando un fenomeno meteorologico texano in una metafora cosmica della lotta dell'individuo contro forze soverchianti, siano esse naturali, sociali o psicologiche.

La sequenza dell'aggressione e del conseguente omicidio è un punto di non ritorno nella storia del cinema. Dopo essere stata violentata da Roddy durante una tempesta, Letty, in uno stato di trance dissociata, lo uccide. Ma il suo tentativo di seppellire il corpo all'esterno è vanificato dal vento stesso, che scopre incessantemente il cadavere, rifiutando di concederle l'oblio. È una nemesi implacabile, un memento perenne della sua colpa e del suo trauma. L'atto di uccidere non è una liberazione, ma l'inizio di un tormento ancora più profondo. Il mondo esterno si è fatto letteralmente giudice e giuria, in un processo kafkiano senza appello.

Il finale, notoriamente imposto dalla MGM e diverso da quello tragico del romanzo di Dorothy Scarborough in cui Letty fugge verso una morte certa nella tempesta, è stato spesso criticato come un compromesso hollywoodiano. Letty, dopo aver confessato l'omicidio al marito Lige, viene da lui perdonata. Insieme, decidono di affrontare il vento, non più come nemico, ma come parte della loro esistenza. Eppure, a un'analisi più attenta, questo finale "lieto" assume contorni inquietanti. Lo sguardo finale di Lillian Gish, un misto di folle determinazione e rassegnazione, non è quello di una donna che ha trovato la pace. È lo sguardo di chi ha stipulato una tregua con il proprio demone, di chi ha interiorizzato l'orrore fino a farsene scudo. Non ha sconfitto il vento; si è fusa con esso. Ha accettato la follia come nuova forma di sanità, l'unica possibile per sopravvivere in quel mondo. È una vittoria pirrica che assomiglia terribilmente a una resa incondizionata, quasi un'eco della stoica disperazione di certe figure di Werner Herzog perse nella giungla amazzonica.

Il vento rimane un'esperienza viscerale, un poema febbrile che scava nel cuore oscuro del sogno americano. È la cronaca della disintegrazione non solo di una donna, ma di un'idea di civiltà, fragile e inadeguata di fronte all'immensità primordiale del continente. Sjöström ha preso il mito della frontiera, con i suoi coraggiosi pionieri e le sue promesse di rinascita, e vi ha soffiato sopra fino a lasciarne solo lo scheletro scarnificato. Quello che resta è un capolavoro senza tempo, un grido silenzioso che continua a risuonare, portato da un vento che non ha mai smesso di soffiare.

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