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La cosa da un altro mondo

1951

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Un contatore Geiger che crepita nel silenzio artico è la prima nota di una sinfonia della paura che avrebbe definito un decennio. È il suono dell’ignoto che si fa materia, della minaccia invisibile che assume contorni misurabili. La cosa da un altro mondo non è semplicemente un film; è il fossile primordiale da cui è stato estratto il DNA di quasi tutta la fantascienza paranoica del XX secolo. Vederlo oggi significa compiere un'esplorazione archeologica nelle fondamenta di un genere, scoprendo che la struttura portante, eretta nel 1951, è ancora spaventosamente solida.

La questione autoriale è un labirinto di specchi che affascina i cinefili da generazioni. Sebbene la regia sia accreditata al montatore Christian Nyby, l’ombra demiurgica di Howard Hawks, qui in veste di produttore (non accreditato), si proietta su ogni inquadratura, su ogni scoppiettante dialogo sovrapposto. Riconosciamo il suo tocco inconfondibile nella gestione del gruppo di professionisti sotto assedio, un microcosmo maschile coeso e competente che ricorda i piloti di Avventurieri dell'aria o i pistoleri di Un dollaro d'onore. È un mondo hawksiano, dove il cameratismo è l'unica arma contro il caos e l'efficienza è una virtù morale. Persino la figura femminile, Nikki Nicholson (Margaret Sheridan), pur relegata a un ruolo di supporto, possiede quella grinta e quella sfrontatezza tipiche delle "donne di Hawks", capaci di tenere testa agli uomini con battute taglienti e un'intelligenza pratica. Questa impronta stilistica eleva il film ben al di sopra del B-movie medio, trasformandolo in un'opera di tensione psicologica mascherata da creature feature.

Il cuore pulsante del dramma, tuttavia, non è lo scontro tra l'uomo e il mostro, ma la frattura insanabile all'interno della stessa cittadella umana. Il film inscena una dicotomia filosofica quasi platonica, incarnata da due figure archetipiche: il Capitano Patrick Hendry (Kenneth Tobey) e il Dottor Arthur Carrington (Robert Cornthwaite). Hendry è l'uomo d'azione, il pragmatismo militare fatto persona. Il suo mondo è binario: minaccia/sicurezza, amico/nemico. La sua soluzione di fronte all'ignoto è la neutralizzazione, la distruzione. Carrington, d'altro canto, è il sacerdote della scienza, un Prometeo algido e quasi disumano nella sua venerazione per la conoscenza. Per lui, la "Cosa" non è un pericolo, ma un'opportunità irripetibile, un sacro Graal biologico da studiare a ogni costo, anche a quello della vita umana. Il loro conflitto è la rappresentazione allegorica della grande ansia post-bellica: la scienza, che aveva donato all'uomo il potere atomico, era diventata essa stessa una forza terrificante e incontrollabile, una hybris che minacciava di divorare i suoi stessi creatori. Carrington, con il suo braccio fasciato e il suo distacco quasi aristocratico, è un discendente diretto del Dottor Frankenstein di Mary Shelley, accecato dalla ricerca al punto da non riconoscere la natura mostruosa della sua stessa ambizione.

Questo scontro tra pragmatismo e intellettualismo si inserisce perfettamente nel tessuto della Guerra Fredda incipiente. Girato all'apice del Maccartismo, il film è un potentissimo risuonatore delle paure dell'epoca. L'alieno, descritto come un "super-carota" intellettuale che si nutre di sangue, è l'incarnazione perfetta del "Nemico" ideologico. Non è un mostro ctonio e irrazionale come quelli dell'horror gotico; è un essere intelligente, privo di emozioni, spinto da un unico imperativo biologico: la sopravvivenza e la propagazione. È un'entità che non si può comprendere, con cui non si può negoziare. La sua natura vegetale, che gli permette di riprodursi asessualmente da ogni sua parte, è una metafora agghiacciante dell'infiltrazione ideologica, una minaccia che può germogliare ovunque, silenziosamente, fino a soppiantare l'organismo ospite. La base artica diventa così un modello in scala del mondo libero, un avamposto isolato che deve difendersi da un invasore alieno e disumano, la cui sola esistenza è una negazione dei valori umani.

È affascinante notare come il film si discosti radicalmente dalla sua fonte letteraria, il racconto Who Goes There? di John W. Campbell Jr. Lì, la minaccia era interna, un mutaforma che poteva assumere le sembianze di chiunque, scatenando una paranoia corrosiva che disintegrava il gruppo dall'interno. Hawks e lo sceneggiatore Charles Lederer operano una scelta cruciale: esternalizzano il pericolo. Il mostro è uno, è fisico, è "altro". Questa decisione, se da un lato semplifica la tensione psicologica, dall'altro la rende più diretta e perfettamente sintonizzata con il sentire del 1951, che necessitava di un nemico visibile contro cui coalizzarsi. La paranoia del racconto di Campbell, quella del vicino di casa che potrebbe essere una spia, è una paura più sottile e strisciante che John Carpenter, in un'America post-Vietnam e post-Watergate ormai priva di certezze, saprà magistralmente riportare sullo schermo nel suo capolavoro del 1982. Le due "Cose", quella del '51 e quella dell' '82, sono due facce della stessa medaglia paranoica, due risposte a due momenti storici diversi ma ugualmente angosciati.

La regia, a prescindere da chi tenesse effettivamente in mano il megafono, è un saggio di economia ed efficacia. La tensione viene costruita con una precisione chirurgica, attraverso un uso magistrale del fuori campo e del sonoro. Non vediamo quasi mai il mostro (un imponente James Arness sotto strati di make-up) in piena luce, ma ne percepiamo la presenza attraverso porte che si aprono lentamente, ombre che si allungano e, soprattutto, l'incessante ticchettio del contatore Geiger, che diventa il battito cardiaco del film stesso. La scena in cui i membri della base, disposti in cerchio sul luogo dell'impatto, ne intuiscono la forma di disco volante è un momento di pura genialità cinematografica: l'astronave non viene mai mostrata, ma la sua immagine si compone nella mente dello spettatore attraverso la geometria dei corpi e la convergenza degli sguardi. E come dimenticare la sequenza iconica in cui l'alieno, cosparso di cherosene, prende fuoco e si lancia contro i protagonisti? È un'immagine primordiale, quasi mitologica, l'uomo che combatte il mostro con l'elemento purificatore per eccellenza, il fuoco, in una lotta che sembra uscita da un racconto di Jack London riletto da H.P. Lovecraft.

La fotografia in bianco e nero di Russell Harlan accentua il senso di isolamento e desolazione, trasformando la base scientifica in una sorta di sottomarino intrappolato sotto una coltre di ghiaccio. Le tempeste di neve non sono solo un elemento atmosferico, ma una metafora visiva dell'accecamento e della confusione che assalgono i personaggi. In questo teatro dell'assurdo ghiacciato, ogni corridoio può nascondere un'insidia, ogni porta chiusa è un sipario su un potenziale orrore. Il finale, affidato al giornalista Ned Scott, è diventato leggenda. Il suo monito, lanciato via radio al mondo intero – "Tell the world. Tell this to everybody, wherever they are. Watch the skies. Everywhere. Keep looking. Keep watching the skies!" – trascende il film stesso. Non è solo la chiusa di una storia di fantascienza; è il manifesto di un'intera epoca, un appello disperato alla vigilanza che incapsula tutta l'ansia esistenziale di una civiltà che ha appena scoperto di non essere più sola, né nell'universo né, forse, sul proprio pianeta. È un finale che non offre catarsi, ma prolunga l'inquietudine all'infinito, lasciando lo spettatore con il collo piegato all'insù, a scrutare un cielo che non sarà mai più innocente.

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