
La Maman Et La Putain
1973
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Regista
Un sismografo dell’anima che registra le scosse di assestamento di un terremoto generazionale. Un buco nero verbale che risucchia tre ore e quaranta minuti della nostra vita per restituirceli trasformati, svuotati e stranamente più consapevoli. Un monumento funebre eretto sulle rovine ancora fumanti del Maggio francese. La Maman et la Putain di Jean Eustache non è un film, è un’esperienza terminale; la necroscopia definitiva di un’epoca, dei suoi amori e delle sue parole, soprattutto delle sue parole, usate come scudi, come bisturi, come sudari.
Siamo a Parigi, 1972. Le barricate sono un ricordo sbiadito, i sogni di "fantasia al potere" si sono dissolti nell'aria grigia della Senna. Ciò che resta è il dopo, il riflusso, la disillusione cosmica di chi ha visto la Storia passare sotto la finestra e poi tirare dritto. In questo vuoto pneumatico si muove Alexandre (Jean-Pierre Léaud), un dandy intellettuale disoccupato, un parassita esistenziale che vive di citazioni, di aforismi altrui e delle cure di Marie (Bernadette Lafont), la sua compagna più anziana che lo mantiene nel loro piccolo appartamento, fungendo da figura materna e da porto sicuro. Alexandre è l'incarnazione di una paralisi: non agisce, reagisce; non crea, ricicla. È un flâneur dell'anima che passa le sue giornate ai tavolini del Café de Flore e de Les Deux Magots, non per forgiare nuove avanguardie, ma per mummificare quelle vecchie. La sua verbosità è un meccanismo di difesa contro il silenzio del mondo e il vuoto dentro di sé. Ogni sua frase è un pezzo di bravura rubato a qualcun altro, da Murnau a Bresson, da Maurras a Sartre, un collage di pensieri che maschera l'assenza di un pensiero proprio. Léaud, icona stessa della Nouvelle Vague, qui ne celebra il funerale. Non è più Antoine Doinel, l'irrequieto e affascinante ribelle; è il fantasma di Doinel, invecchiato, incattivito, arenato nelle secche del proprio narcisismo. Eustache compie un atto di decostruzione meta-cinematografica spietato, usando il simbolo di un'intera ondata cinematografica per dichiararne il fallimento spirituale.
L'equilibrio precario di questa non-vita viene spezzato dall'arrivo di Veronika (Françoise Lebrun), un'infermiera polacca, promiscua e disperatamente vitale. Se Marie è la "Maman", la terra ferma della tradizione e della stabilità borghese che Alexandre disprezza ma da cui dipende, Veronika è la "Putain", la tempesta, l'ignoto, la modernità liquida e senza appigli. Inizia così un ménage à trois che non ha nulla della trasgressione liberatoria e tanto dell'agonia claustrofobica. I tre personaggi si orbitano attorno in un balletto di attrazione e repulsione, intrappolati in stanze da letto e caffè parigini che diventano gironi danteschi del discorso.
La vera protagonista del film, infatti, è la parola. Eustache, quasi in polemica con il cinema militante e visivamente aggressivo di un Godard post-'68, sceglie la via opposta: una radicale adesione al verbo. I suoi personaggi parlano senza sosta, in un flusso torrenziale che ricorda la prosa febbrile di Céline o la meticolosa, estenuante autoanalisi di un personaggio di Dostoevskij. Ma a differenza dei dialoghi cesellati di un Rohmer, dove la parola è uno strumento per raggiungere una chiarezza etica o sentimentale, qui è un cancro che prolifera, un rumore bianco che impedisce qualsiasi vera comunicazione. Si parla d'amore per non amare, si teorizza il sesso per non sentire il corpo, si discute di politica per non agire. È un'overdose di linguaggio che porta al collasso del significato. In questo, il film diventa un'opera proustiana al contrario: se in Proust la memoria involontaria fa riaffiorare il passato in tutta la sua pienezza sensoriale, in Eustache il ricordo è un'arma, una citazione da brandire per ferire l'altro, un archivio morto da cui attingere per costruire la propria maschera.
Girato in un austero 16mm in bianco e nero, con lunghissimi piani sequenza che inchiodano i personaggi e lo spettatore nello stesso spazio soffocante, il film ha la crudezza di un documento e la precisione di un teorema. Eustache non estetizza la disperazione, la registra. La sua regia è un atto di onestà brutale. Sappiamo che il copione è quasi interamente autobiografico, un montaggio di conversazioni reali, diari, lettere dello stesso regista e delle sue amanti. Questa non è finzione, è un esorcismo, un atto di auto-vivisezione messo in scena con un coraggio artistico quasi suicida. E il suicidio, purtroppo, aleggerà sulla figura di Eustache fino alla sua tragica fine nel 1981, gettando una luce ancora più cupa e profetica su quest'opera.
Tutto questo torrente verbale, questo solipsismo a tre voci, culmina in una delle sequenze più devastanti della storia del cinema: il monologo finale di Veronika. Dopo l'ennesima notte di sesso meccanico e parole vuote, ubriaca e annientata, Veronika vomita un flusso di coscienza che demolisce ogni cosa. È il grido che squarcia il velo dell'intellettualismo. Parla del corpo, del sesso, dell'umiliazione, della ricerca disperata di un contatto che vada oltre la superficie delle frasi fatte. È un'invocazione straziante alla normalità, al matrimonio, ai figli, a tutto quell'universo borghese che Alexandre ha passato l'intero film a deridere. In quel momento, la "Putain" rivela un desiderio disperato di essere "Maman", non come archetipo, ma come essere umano che cerca un ancoraggio nel caos. È l'atto di accusa definitivo contro la vacuità di una generazione che, in nome di una libertà astratta, ha perso la capacità di amare e di connettersi. È il punto di non ritorno, la parola che finalmente diventa carne e sangue, e fa un male cane.
La Maman et la Putain è un film difficile, estenuante, a tratti insopportabile. Chiede allo spettatore una pazienza e una capacità di ascolto quasi monastiche. Ma la sua importanza è incalcolabile. È l'epitaffio di una rivoluzione fallita, non tanto nelle piazze, quanto nelle camere da letto e nelle coscienze. È il punto finale, la pietra tombale posta sulla Nouvelle Vague, di cui Eustache fu l'ultimo, più disperato e forse più lucido erede. È un'opera che, come le grandi cattedrali gotiche, si può ammirare per la sua architettura complessa, ma il cui vero scopo è farci sentire piccoli e impotenti di fronte al mistero della fede, o in questo caso, della sua totale e irrimediabile assenza.
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