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La strada scarlatta

1945

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Regista

Un uomo qualunque, con un'anima da poeta e le mani macchiate di inchiostro da contabile, cammina sotto una pioggia che sembra voler lavare via non lo sporco dalle strade, ma le illusioni dalle persone. Christopher Cross, interpretato da un Edward G. Robinson monumentale e straziante, è l'epicentro di un terremoto morale che Fritz Lang orchestra con la precisione di un architetto del Fato. La strada scarlatta non è semplicemente un film noir; è una dissezione spietata, quasi clinica, della fragilità umana di fronte alla brama, un trattato sulla dannazione che non necessita di fiamme infernali ma si accontenta delle luci al neon di un Greenwich Village trasfigurato in un girone dantesco.

Robinson, per tutta una carriera icona del gangsterismo spavaldo e brutale, qui compie una delle più straordinarie inversioni di rotta della storia di Hollywood. Il suo "Chris" Cross è un cassiere di mezza età, sposato con una vedova megera che venera il ricordo del primo marito, un poliziotto eroico (o così lei crede). La sua unica, vera vita è quella che conduce la domenica, da solo, davanti a una tela. I suoi quadri, dall'estetica naïf e quasi primitiva, sono l'unica espressione pura di un'esistenza altrimenti grigia e repressa. È un "pittore della domenica", una definizione che nel film assume una valenza quasi sacrale: la pittura è il suo tempio, il suo giorno di riposo dalla mediocrità. E, come in ogni tragedia che si rispetti, sarà proprio questo suo sancta sanctorum a essere profanato e a condurlo alla rovina.

L'agente del caos ha il volto e il corpo di Joan Bennett nei panni di Katherine "Kitty" March, una femme fatale declassata, volgare, priva della glaciale intelligenza di una Phyllis Dietrichson de La fiamma del peccato. Kitty non è un genio del male; è una parassita disperata, manovrata dal suo protettore/amante Johnny Prince (un Dan Duryea viscido e perfetto nel suo ruolo di carogna sorridente). L'incontro tra Chris e Kitty è un cortocircuito cosmico: la gentilezza scambiata per ricchezza, la lussuria scambiata per amore. Chris proietta sulla donna la sua fame di bellezza e di vita, la stessa che riversa nelle sue tele. La vede come una musa, un'attrice in difficoltà, e non come la cinica adescatrice che è. In questo, La strada scarlatta si rivela una meditazione terribile sul potere dello sguardo e dell'auto-inganno: vediamo non ciò che è, ma ciò di cui abbiamo disperatamente bisogno.

Lang, fuggito dalla Germania nazista, porta con sé tutto il peso dell'Espressionismo e della sua visione di un universo come trappola geometrica. Se il suo precedente film americano con lo stesso trio di attori, La donna del ritratto, giocava con l'idea del sogno come via di fuga, qui non c'è scampo. La realtà è un incubo a occhi aperti. Ogni strada di New York sembra condurre a un vicolo cieco, ogni porta aperta rivela una stanza più piccola e soffocante. La regia di Lang è implacabile, fatta di ombre che si allungano come sbarre di una prigione e di riflessi (nelle pozzanghere, nelle vetrine) che mostrano un'immagine distorta e beffarda dei personaggi. È l'eredità di M – Il mostro di Düsseldorf applicata non a un serial killer, ma alla disintegrazione di un'anima comune.

Il film è un remake de La Chienne (1931) di Jean Renoir, ma dove Renoir era interessato a un'osservazione quasi sociologica, a un naturalismo compassionevole sulla crudeltà della passione, Lang è un metafisico del pessimismo. Il suo è un teorema sulla colpa e sulla punizione. La differenza tra i due film è la stessa che intercorre tra un romanzo di Zola e uno di Dostoevskij. Renoir mostra come la società e le passioni umane possano schiacciare un uomo; Lang mostra come un uomo possa diventare l'architetto della propria dannazione eterna, costruendola mattone su mattone con le sue stesse menzogne e debolezze.

La trovata geniale e crudele del film è il furto dell'identità artistica di Chris. Convinto da Johnny, Kitty si spaccia per l'autrice dei quadri di Cross, ottenendo un successo di critica e di pubblico che a lui, uomo invisibile, sarebbe stato precluso. Qui il film trascende il noir e diventa una parabola straziante sull'arte, l'autenticità e la mercificazione. L'anima di Chris, la sua unica parte vera, viene venduta al mercato come una qualunque cianfrusaglia, e il mondo applaude. È un commento devastante non solo sulla vacuità di certo mondo dell'arte, ma sulla tragedia dell'artista incompreso, un Van Gogh da ufficio la cui sensibilità viene riconosciuta solo quando è filtrata dalla menzogna e dal glamour posticcio di una donna che disprezza lui e la sua arte. La scena in cui Chris, umiliato, è costretto a firmare le sue opere con il nome di un'altra persona è una delle più violente e psicologicamente dolorose della storia del cinema.

Tutto questo conduce a un'esplosione di violenza inevitabile e sordida. L'omicidio di Kitty con un tagliacarte non ha nulla di catartico; è un atto goffo, patetico, l'ultimo sussulto di un uomo la cui intera esistenza è stata un fallimento. E qui Lang gioca la sua partita più audace con il Codice Hays, il rigido sistema di censura dell'epoca. Il Codice prevedeva che ogni crimine dovesse essere punito. Lang, formalmente, rispetta la regola: Johnny, l'uomo sbagliato, viene accusato dell'omicidio e giustiziato. Ma la vera punizione, quella più atroce, è riservata a Chris. Impunito dalla legge, ma condannato a un inferno personale.

Il finale de La strada scarlatta è leggenda. Un finale che si imprime nella memoria come un marchio a fuoco. Chris Cross, ormai un barbone, un fantasma che vaga per le stesse strade che un tempo sognava di dipingere, si ferma davanti alla vetrina di una galleria d'arte. Dentro, esposto come un gioiello, c'è un suo autoritratto venduto per una cifra esorbitante. Lui, il creatore, è fuori al freddo, invisibile, mentre la sua essenza è dentro, al caldo, ammirata e prezzata, ma per sempre separata da lui. È tormentato dalle voci di Kitty e Johnny, un coro spettrale che gli nega la pace persino nella follia. Non è solo la punizione di Raskolnikov, è peggio: è l'annullamento totale dell'identità. È la condizione di un autore la cui opera è viva e acclamata, mentre lui è già morto e dimenticato. In questo senso, Chris Cross diventa una figura archetipica, l'emblema di ogni creatore sfruttato, di ogni anima venduta, l'eco di quegli scrittori come Nathaniel West o F. Scott Fitzgerald che vedevano le loro visioni più intime macinate dalla macchina di Hollywood.

La strada scarlatta è un capolavoro desolato e perfetto. Un film la cui oscurità non risiede solo nella fotografia magistrale di Milton Krasner, ma nella sua profonda, agghiacciante comprensione della natura umana. Ci dice che la strada per l'inferno non è lastricata di cattive intenzioni, ma di sogni modesti, di desideri inespressi e della disperata, infantile speranza che, un giorno, qualcuno possa guardarci e vedere finalmente il capolavoro che nascondiamo dentro. E ci mostra, con la crudeltà di un dio indifferente, cosa succede quando quel qualcuno si rivela essere il diavolo.

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