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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

La stregoneria attraverso i secoli

1922

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Definire Häxan un film è un atto di semplificazione quasi blasfemo. Quello che il danese Benjamin Christensen scatenò sul mondo nel 1922 non è un’opera cinematografica nel senso convenzionale del termine; è un grimorio filmico, un saggio per immagini, una lezione accademica allucinata, un documentario deviato che si contorce fino a diventare puro horror cosmico. Guardare Häxan oggi significa calarsi in un artefatto culturale talmente anomalo e avanti sui tempi da sembrare piovuto da un futuro alternativo in cui il cinema, invece di seguire la via della narrazione classica, ha imboccato il sentiero tortuoso dell'occulto, della dissertazione antropologica e della fantasmagoria.

La sua struttura, divisa in capitoli quasi enciclopedici, tradisce fin da subito l'intento didattico. Christensen, studioso meticoloso prima ancora che regista, ci prende per mano e ci conduce in un viaggio attraverso la cosmologia della stregoneria, partendo da antiche concezioni babilonesi fino al cuore pulsante delle tenebre del tardo Medioevo europeo. La prima parte è un trattato visivo, una serie di diapositive animate che illustrano demoni, pianeti e l'architettura concettuale della paura ancestrale. Ma è solo l'antipasto. Il vero banchetto diabolico inizia quando Christensen abbandona le illustrazioni e decide di mettere in scena il Sabba, le confessioni, le torture, basandosi su documenti storici e, soprattutto, sulle incisioni del Malleus Maleficarum.

Ed è qui che Häxan trascende e diventa un'esperienza visiva senza precedenti. Le sequenze del Sabba sono un delirio pittorico che sembra scaturito da una collaborazione impossibile tra Hieronymus Bosch, Pieter Bruegel il Vecchio e i capricci più oscuri di Goya. Christensen, che interpreta egli stesso un Satana sardonico e stranamente accattivante, orchestra una sinfonia di grottesco e blasfemo. Streghe che baciano il posteriore del demonio, neonati sacrificati, pozioni ribollenti, creature demoniache con musi da maiale e lingue biforcute che danzano una giga infernale. Il livello di dettaglio dei costumi, del trucco e degli effetti speciali è, per il 1922, qualcosa di miracoloso e terrificante. Non è il gotico stilizzato dell'Espressionismo tedesco, che pure era suo contemporaneo – non c'è l'astrazione geometrica di un Caligari o l'eleganza spettrale di un Nosferatu. Qui c'è la carne, il fango, il sudore. La stregoneria di Christensen non è un'ombra metafisica, ma un atto fisico, sporco, quasi contadino nella sua carnalità, un'esplosione di istinti repressi che trova nel rito notturno la sua catarsi. È un'estetica che ritroveremo, per vie traverse, decenni dopo, nella trilogia della vita di Pasolini, con la sua celebrazione di un Medioevo corporale e senza filtri.

Ma l'operazione di Christensen è infinitamente più complessa e meta-testuale. Il regista non si limita a mostrare; riflette costantemente sul potere dell'immagine stessa. Mettendo in scena con scrupolo filologico le fantasie e le paure descritte nei manuali degli inquisitori, egli non sta validando la stregoneria, ma sta esponendo il meccanismo attraverso cui la credenza viene costruita e perpetuata. Ci mostra la tortura come macchina teatrale per estorcere narrazioni predefinite, la confessione come atto performativo. In questo senso, Häxan è un precursore involontario del mockumentary e persino del found footage: finge un'autenticità documentaristica per svelare la natura costruita della "verità". È un film sulla credulità, e il primo a dover essere credulone è lo spettatore.

Il colpo di genio, tuttavia, arriva nell'ultimo segmento. Dopo averci immerso completamente nel sistema di credenze medievale, Christensen compie un balzo temporale vertiginoso fino al presente del 1922. Ci mostra donne moderne affette da "isteria", cleptomania, sonnambulismo. Attraverso una serie di parallelismi visivi e didascalici, il regista avanza una tesi audace e profondamente moderna: le presunte streghe di un tempo non erano altro che persone affette da disturbi mentali, incomprese e perseguitate da una società che medicalizzava la devianza attraverso la teologia del demoniaco. La scopa volante diventa un simbolo fallico freudiano, il patto col diavolo una sublimazione di desideri repressi. Häxan si trasforma così in un saggio di psicopatologia comparata, un'opera che dialoga direttamente con la nascente psicoanalisi e con le teorie di Charcot sulla Salpêtrière.

Questa mossa finale ricontestualizza l'intero film. Le orge demoniache che abbiamo appena visto non sono più solo una ricostruzione storica, ma la visualizzazione dell'inconscio collettivo, il teatro della mente di un'epoca. Il film diventa una seduta psicanalitica della Storia stessa. Christensen non sta ridicolizzando la fede medievale con la supponenza della scienza moderna; al contrario, sta suggerendo che anche la nostra comprensione "scientifica" potrebbe essere solo un altro sistema di credenze, un altro modo di etichettare e controllare l'ignoto, l'irrazionale, il femminile deviante. L'inquisitore con il suo manuale e lo psichiatra con il suo DSM non sono poi così distanti. È un'intuizione di una lucidità spaventosa, che anticipa di decenni il pensiero di Foucault sulla storia della follia e sulle strutture del potere che definiscono la normalità.

Censurato, mutilato, incompreso alla sua uscita, Häxan ha vissuto molte vite. È stato un film di sfruttamento proiettato nei circuiti grindhouse, un film d'arte riscoperto dai surrealisti, e persino la base per una versione psichedelica del 1968, Witchcraft Through the Ages, narrata da un William S. Burroughs in stato di grazia e musicata da un quintetto jazz. Questa sua natura polimorfa è la prova definitiva della sua grandezza. Non è un reperto da cineteca, ma un organismo vivo che continua a mutare significato a ogni visione. È un film che pone una domanda fondamentale e senza tempo: dove finisce la realtà e dove inizia la rappresentazione che ce ne facciamo? Mostrandoci l'inferno sulla terra, Christensen ha finito per creare un'opera profondamente umanista, una meditazione sulla paura, sulla superstizione e sulla disperata, violenta necessità dell'uomo di dare un nome e un volto a ciò che non comprende. È uno specchio nero che non riflette tanto il passato quanto la persistenza delle nostre paure più recondite e i meccanismi, oggi come allora, con cui cerchiamo di esorcizzarle.

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