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La vita di O-Haru, donna galante

1952

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Un volto scavato dal tempo si specchia nella penombra di un tempio buddista. O-Haru, anziana prostituta di strada, osserva le statue lignee dei 500 Arhat, i discepoli illuminati. In quelle effigi severe e impassibili, il suo sguardo stanco e allucinato proietta i volti degli uomini che hanno segnato la sua vita, tappe di una Via Crucis laica che l’ha trascinata dalla corte imperiale al fango del bordello. Inizia così, con un prologo di sublime disperazione, La vita di O-Haru, donna galante (Saikaku Ichidai Onna, 1952), l’opera con cui Kenji Mizoguchi raggiunge una vetta di purezza stilistica e di spietata lucidità che lo consacra definitivamente nel pantheon dei maestri assoluti. Il film non è un racconto, è un’epitaffio; non è un dramma, è un requiem visivo.

La struttura a flashback, innescata da questa epifania nel tempio, ci svela una discesa agli inferi che ha la precisione geometrica di una formula matematica e la crudeltà ineluttabile di una tragedia greca. Ogni gradino della caduta di O-Haru non è frutto di un errore morale o di una debolezza caratteriale, ma è la conseguenza diretta di un sistema sociale, quello del Giappone feudale dell'era Tokugawa, che agisce come una macchina tritasassi sull’individuo, specialmente se donna. Mizoguchi, adattando il romanzo picaresco di Ihara Saikaku del XVII secolo, ne prosciuga ogni elemento di leggerezza e avventura per trasformarlo in un teorema sulla sofferenza. O-Haru non è una peccatrice, ma una vittima sacrificale immolata sull'altare di un codice d'onore disumano, un'architettura della sventura in cui ogni via di fuga conduce a un baratro ancora più profondo. Il suo primo "peccato" è l'amore: un sentimento puro e corrisposto per un paggio di rango inferiore, un'infrazione che costa la vita a lui e l'esilio a lei e alla sua famiglia. Da questo momento, la sua esistenza diventa una merce, il suo corpo un oggetto scambiato, usato e infine scartato.

La cinepresa di Mizoguchi non giudica, non partecipa: constata. Il suo celebre stile, fatto di piani-sequenza lunghissimi e di una profondità di campo che inscrive i personaggi nel loro ambiente come figure di un bassorilievo, raggiunge qui un’efficacia quasi trascendentale. La macchina da presa si muove con la lentezza e la grazia di una cerimonia, svelando gli spazi, seguendo i personaggi con una distanza che non è freddezza, ma una forma superiore di pietà. È lo sguardo della Storia, o forse di un Dio impassibile che osserva il dipanarsi di un destino già scritto. Ogni inquadratura è un universo di senso, una composizione pittorica che evoca la tradizione degli ukiyo-e, le "immagini del mondo fluttuante". Le porte scorrevoli, le grate, i paraventi non sono semplici elementi scenografici, ma sbarre visive che frammentano lo spazio e imprigionano O-Haru, metafora tangibile della sua condizione. Mizoguchi non ha bisogno di primi piani per strappare l'emozione; la disperazione della protagonista emerge dalla sua postura, dal modo in cui si muove in uno spazio che la respinge, dalla sua progressiva scomparsa all'interno di scenografie opprimenti.

In questa coreografia della caduta, la performance di Kinuyo Tanaka è un miracolo di mimesi e interiorizzazione. Attrice feticcio di Mizoguchi, Tanaka attraversa cinquant'anni della vita di O-Haru con una trasformazione fisica e spirituale che lascia attoniti. È la giovane dama di corte piena di speranza, la concubina umiliata del signore Matsudaira, la cortigiana tradita, la moglie borghese perseguitata dal passato, la mendicante e infine la prostituta che ha perso anche il nome. Il suo volto, da luminoso e fiero, diventa una maschera di sofferenza opaca, i suoi movimenti, da aggraziati, si fanno curvi e strascicati. La sua interpretazione si pone sullo stesso piano della Maria Falconetti nel La passione di Giovanna d'Arco di Dreyer: non è recitazione, è martirio. Entrambe sono icone della sofferenza femminile, ma se quella di Giovanna è una passione spirituale che la eleva a santa, quella di O-Haru è una via crucis sociale che la degrada a reietta, privandola di ogni dignità.

Il parallelismo più fertile, tuttavia, non è forse con il cinema, ma con la letteratura naturalista europea. La O-Haru di Mizoguchi è una creatura che sembra uscita dalle pagine di Émile Zola o di Giovanni Verga. Come Gervaise Macquart in L'ammazzatoio, è schiacciata da un determinismo ambientale e sociale che non le concede scampo. Ogni tentativo di riscatto è vanificato da un meccanismo più grande di lei, una concatenazione di cause ed effetti che ha la logica ferrea di un esperimento scientifico. Ma a differenza delle eroine di Zola, il cui destino è spesso segnato anche da tare ereditarie, la caduta di O-Haru è interamente imputabile alla struttura sociale. È una "vinta", nel senso più puro del termine verghiano, un'anima sconfitta dal ciclo immutabile della Storia e delle convenzioni. Se la Moll Flanders di Defoe, altra grande "donna galante" della letteratura, usa la sua intelligenza e il suo corpo per scalare la società con spirito pragmatico e quasi imprenditoriale, O-Haru è l'antitesi assoluta: è una figura passiva, la cui unica colpa è desiderare una vita normale, un briciolo di felicità in un mondo che glielo nega sistematicamente.

Realizzato nel 1952, in un Giappone che ancora lecca le ferite della Seconda Guerra Mondiale e vive sotto l'occupazione americana, il film è una potentissima allegoria. Mizoguchi, la cui sorella fu venduta come geisha dal padre, riversa in quest'opera tutta la sua ossessione per la condizione femminile e una critica feroce alle vestigia del Giappone feudale, le cui logiche patriarcali e oppressive, secondo lui, non erano state del tutto sradicate. Raccontando una storia del XVII secolo, parla direttamente al suo presente, mettendo in discussione le fondamenta di una cultura che per secoli ha sacrificato la donna. È un gesto di un'audacia incredibile, un j'accuse mascherato da impeccabile dramma in costume.

La sequenza finale è tra le più strazianti e potenti della storia del cinema. Dopo essere stata scacciata anche dal tempio, O-Haru vaga per le strade. Vede un gruppo di uomini e, per istinto, per abitudine, li approccia con il sorriso stanco e meccanico di una prostituta. "Signori, non volete comprare un po' d'amore?". Ma poi si ferma, si guarda le mani vuote, e prosegue il suo cammino, trasformandosi in una monaca itinerante, una figura spettrale che cammina verso il nulla. Non c'è redenzione, non c'è catarsi, solo la constatazione di una vita annientata. La circolarità della narrazione si chiude: la donna che all'inizio contemplava le statue degli illuminati è diventata essa stessa un'icona errante della sofferenza, un fantasma che vaga in un paesaggio indifferente.

La vita di O-Haru, donna galante è un'esperienza visiva ed emotiva totalizzante. È un cinema che esige attenzione, che respinge la facile empatia per spingere lo spettatore a una riflessione più profonda sulla natura del potere, della società e del destino. È un capolavoro spietato e necessario, la cui bellezza formale, quasi insostenibile, non fa che acuire la brutalità del suo messaggio. Un film che, una volta visto, si deposita nell'anima e continua a interrogarci, come il volto enigmatico di una di quelle statue del tempio, testimoni silenziose dell'infinita capacità umana di infliggere e sopportare il dolore.

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