Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

L'Âge d'or

1930

Vota questo film

Media: 0.00 / 5

(0 voti)

Un cortocircuito logico, un'aggressione frontale alla sintassi del reale. Se si dovesse distillare L'Âge d'or in una singola immagine, non sarebbe una delle sue iconiche e blasfeme sequenze, ma la scarica elettrica che corre tra due sinapsi che non avrebbero mai dovuto incontrarsi. Il film di Luis Buñuel, nato dalle ceneri incandescenti della sua collaborazione con Salvador Dalí, non è semplicemente un film; è un atto di terrorismo semiotico, un manuale d'istruzioni per smantellare la realtà borghese pezzo per pezzo, con la precisione chirurgica di un entomologo e la furia iconoclasta di un eretico.

L'incipit stesso è una dichiarazione di guerra epistemologica. Un documentario sugli scorpioni, meticoloso e scientifico, che culmina in una lotta mortale. Buñuel non sta semplicemente perdendo tempo. Sta stabilendo le regole del gioco, o meglio, sta rivelando il codice sorgente del mondo che intende hackerare: sotto la fragile vernice della civiltà, pulsa un universo di violenza primordiale, di istinti brutali e insopprimibili. Subito dopo, la narrazione deraglia. Banditi straccioni, figure che sembrano uscite da un western picaresco di serie Z, si scontrano con una delegazione di dignitari che fondano "la Roma Imperiale". La giustapposizione non è casuale, è un commento corrosivo sulla natura arbitraria e violenta di ogni fondazione, di ogni ordine costituito. La civiltà non nasce dalla ragione, ma da un atto di forza mascherato da cerimonia. È il primo di una serie infinita di pugni nello stomaco dello spettatore benpensante.

Ma il vero cuore pulsante del film, il suo motore immobile e disperato, è l'amour fou, l'amore folle che lega i due protagonisti, interpretati da Gaston Modot e Lya Lys. Il loro desiderio è una forza della natura, un evento geologico che tenta di squarciare la crosta terrestre delle convenzioni sociali. Ogni loro tentativo di consumare questa passione viene sistematicamente, quasi sadicamente, frustrato. Sono come due particelle subatomiche in un acceleratore che vengono deviate un istante prima della collisione che potrebbe generare un nuovo universo. La loro lotta è un poema epico dell'impedimento. Quando lui, in preda alla frustrazione, prende a calci un cagnolino e schiaffeggia la madre della sua ospite, non assistiamo a un atto di crudeltà gratuita, ma a una liberazione di energia libidica deviata, un'esplosione che non potendo essere creativa diventa distruttiva. È la stessa logica che anima il Travis Bickle di Taxi Driver, un'altra anima la cui incapacità di connettersi si trasforma in violenza purificatrice, sebbene Scorsese la incanali nel dramma psicologico mentre Buñuel la lascia esplodere come un petardo surrealista.

L'intero film è costruito su questa dialettica tra desiderio e repressione, che si manifesta nella sua forma più acuta durante la surreale festa dell'alta società. Qui, Buñuel orchestra un balletto dell'assurdo che fa sembrare il teatro di Ionesco un esercizio di placido realismo. Un carretto di contadini attraversa il salone senza che nessuno batta ciglio; una mucca riposa placidamente sul letto della marchesa; un incendio in cucina suscita meno scalpore di un'infrazione all'etichetta. Queste non sono gag, ma fratture deliberate nel tessuto della normalità. Sono glitch visivi che espongono l'inconsistenza e la cecità volontaria di un mondo che ha sostituito la vita con il rituale. La borghesia di Buñuel non è semplicemente ipocrita; è ontologicamente assente, un insieme di gusci vuoti che eseguono un protocollo insensato mentre il mondo reale – fatto di lavoro, natura, desiderio – li attraversa come un fantasma. La capacità del cinema di materializzare il metaforico trova qui uno dei suoi apici: il salotto borghese non è come una prigione, è una prigione le cui sbarre sono fatte di buone maniere.

È impossibile comprendere la potenza deflagrante de L'Âge d'or senza contestualizzarne la genesi e la ricezione. Finanziato dal visconte Charles de Noailles come un regalo di compleanno per la moglie Marie-Laure (forse il più sovversivo regalo di compleanno della storia), il film fu proiettato per la prima volta allo Studio 28 di Parigi e l'effetto fu tellurico. Le leghe fasciste e cattoliche, intuendo con una lucidità che oggi appare quasi ammirevole la natura profondamente anti-sistemica dell'opera, presero d'assalto il cinema, lanciando inchiostro viola sugli schermi e distruggendo le opere d'arte surrealiste esposte nell'atrio. Il film fu prontamente bandito, un esilio che durò quasi cinquant'anni. Questo scandalo non è una nota a piè di pagina, ma la prova empirica del successo dell'operazione di Buñuel. L'opera non era stata concepita per essere ammirata in un museo, ma per essere un oggetto contundente, una "bomba a orologeria semiotica" progettata per esplodere nella coscienza collettiva. E lo fece, con una precisione devastante.

La sequenza che probabilmente sigillò il suo destino è il finale, un'epifania blasfema di una genialità quasi intollerabile. Dopo una dissolvenza, ci viene detto che i sopravvissuti a una depravata orgia di 120 giorni stanno emergendo da un castello. Si tratta di un riferimento diretto a Le 120 giornate di Sodoma del Marchese de Sade, il testo sacro della letteratura trasgressiva. I "nobili" libertini escono uno dopo l'altro, e l'ultimo, il Duca di Blangis, ha il volto, la barba e le fattezze di Gesù Cristo. Buñuel, con un solo gesto cinematografico, crea un'equazione impossibile e terrificante: la figura simbolo del sacrificio e dell'amore spirituale viene fusa con il campione della perversione e della liberazione assoluta della carne. Non è un semplice anticlericalismo, è qualcosa di molto più profondo e perturbante. È il tentativo di raggiungere un "punto supremo", come lo definiva André Breton, in cui gli opposti (sacro e profano, virtù e vizio, spirito e materia) cessano di essere percepiti come contraddittori. È l'atto finale di una decostruzione totale, che non lascia in piedi alcun altare, né quello di Dio né quello della Ragione.

Rivedere L'Âge d'or oggi significa esporsi a un'energia che non ha perso nulla della sua carica eversiva. In un'epoca in cui la trasgressione è spesso un prodotto di marketing innocuo, la furia di Buñuel appare quasi pura, incontaminata. Il suo surrealismo non è una stanca decorazione onirica, ma un'arma di cognizione, un modo per vedere il mondo attraverso un prisma incrinato che, proprio per la sua imperfezione, rivela verità nascoste. Il film procede per associazioni libere, per cortocircuiti visivi, rifiutando la causalità narrativa tradizionale a favore di una logica emotiva e inconscia. Assomiglia meno a un racconto e più a un sistema operativo alternativo che, una volta installato nella mente dello spettatore, continua a far girare i suoi processi in background, corrompendo i file del pensiero convenzionale. Come i sogni più potenti, L'Âge d'or non si lascia interpretare facilmente; piuttosto, è lui che interpreta noi, mettendo a nudo le nostre repressioni, le nostre ipocrisie e il nostro segreto, insopprimibile desiderio di vedere, almeno una volta, una mucca sul letto e il mondo intero dato alle fiamme per un bacio impossibile.

Paese

Galleria

Immagine della galleria 1
Immagine della galleria 2
Immagine della galleria 3
Immagine della galleria 4
Immagine della galleria 5
Immagine della galleria 6
Immagine della galleria 7

Commenti

Loading comments...