L’Anno scorso a Marienbad
1961
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Regista
Un film terribilmente atipico, questo di Resnais, dove lo spazio e il tempo non sono più costanti inamovibili ma si dissolvono all’interno della vicenda creando uno stato di sospensione, d’incerta attesa. Non è solo una scelta stilistica, ma una vera e propria dichiarazione ontologica che pone il film, pietra miliare della Nouvelle Vague e in particolare del suo filone più intellettuale legato alla "Rive Gauche" di Chris Marker e Agnès Varda, al di fuori di ogni canone narrativo tradizionale. Resnais, che aveva già esplorato la fluidità della memoria in Hiroshima Mon Amour, qui spinge l'indagine alle estreme conseguenze, trasformando la percezione stessa della realtà in un costrutto fragile e malleabile. L'esperienza visiva, supportata da un montaggio che è quasi una partitura musicale, è un viaggio in un labirinto mentale dove ogni corridoio può condurre a un passato, a un presente o a un futuro indistinguibili, sfidando le coordinate cartesiane a cui lo spettatore è abituato e invitandolo a un'immersione quasi onirica, un'esplorazione della coscienza e della sua intrinseca infedeltà.
Sceneggiato da Alain Robbe-Grillet, figura cardinale del Nouveau Roman e campione della 'oggettività' narrativa, il film narra la storia di un uomo e di una donna che s’incontrano in una meravigliosa villa, un luogo sontuoso che è al contempo prigione dorata e palcoscenico di un dramma senza trama. Qui, tra stucchi barocchi e giardini all'italiana, si muovono in modo quasi meccanico e 'entropico' altri ospiti, figure anonime e impeccabili, meri elementi decorativi che sottolineano l'alienazione e la disintegrazione del senso. Questi personaggi secondari, impegnati in rituali ludici come l'infinito gioco dei fiammiferi, non fanno che amplificare il senso di un'esistenza vuota, fatta di convenzioni sociali esangui e di interazioni prive di autenticità.
L’uomo, un volto senza nome come tutti gli altri, è convinto di conoscere la donna, di averla già incontrata l’anno prima in quello stesso luogo, promettendo di fuggire insieme. La donna, tuttavia, nega ogni ricordo, ostinatamente, affermando di non conoscere né lui né nessun altro tra i presenti. Questa dicotomia, questo irriducibile conflitto tra memoria e oblio, costituisce il fulcro dell'opera, catapultando lo spettatore in un labirinto di ipotesi: è la narrazione dell'uomo una fantasia delirante, un tentativo seduttivo, o una verità negata? È la donna vittima di un trauma, un'amnesia, o semplicemente una figura che rifiuta di confrontarsi con un passato scomodo? La natura stessa della realtà viene messa in discussione, ridotta a un mero riflesso soggettivo, un gioco di specchi che distorce ogni certezza.
I due, figure eteree avvolte in abiti di alta moda che li rendono quasi manichini in un'esposizione atemporale, s’inseguono in una danza ipnotica per i corridoi silenziosi e gli imponenti saloni di gala, tra statue marmoree e giardini geometrici che sembrano esistere al di fuori di ogni dimensione storica. La fotografia in bianco e nero di Sacha Vierny, di una bellezza algida e formale, eleva ogni inquadratura a un'opera d'arte immobile, trasformando gli ambienti in un teatro barocco dove ogni elemento è curato con maniacale precisione, ma è privo di vita pulsante. I movimenti di macchina fluidi e ipnotici, le carrellate lente che svelano prospettive infinite, contribuiscono a creare un'atmosfera di irrealtà rarefatta, di eleganza decadente dove ogni gesto e ogni parola sembrano recitati in un copione preordinato, eppure privo di senso compiuto.
Su tutta la narrazione aleggia una sorta di disgregazione temporale che sfida le convenzioni lineari della storia, come se non ci fosse alcun punto di riferimento a cui aggrapparsi. Il film è costruito su una logica circolare e frammentata, in cui le scene si ripetono con variazioni minime, i dialoghi tornano come echi distanti, e la voce narrante dell'uomo si insinua con una insistenza quasi ossessiva, senza mai fornire certezze. Questa struttura volutamente ellittica e sfuggente non è un capriccio autoriale, ma una riflessione profonda sulla natura della memoria stessa, che non è un archivio lineare di eventi, ma un flusso disordinato di impressioni, sensazioni e ricordi che si sovrappongono e si riscrivono continuamente. Resnais costringe lo spettatore a rinunciare alla ricerca di una verità oggettiva, invitandolo invece a immergersi in una realtà percepita, intima eppure universale.
Lo spettatore è incessantemente sconcertato, costretto a un'esperienza di visione attiva e persino intellettualmente faticosa, e si protende verso le due figure principali come unica, flebile via per dirimere la nebbiosa e volutamente ambigua realtà che si dispiega sullo schermo. Non c'è una chiave di lettura univoca, nessuna soluzione facile al puzzle che Resnais e Robbe-Grillet hanno ideato. Il film non offre risposte, ma stimola domande, diventando un vero e proprio trattato filosofico sulla percezione, sulla soggettività e sull'impossibilità di afferrare una verità ultima. La frustrazione che ne deriva è parte integrante del fascino dell'opera, un fascino che deriva proprio dalla sua caparbia resistenza a essere decifrata, invitando a una pluralità di interpretazioni che permangono ben oltre la visione.
Non è, in definitiva, importante che i due si conoscano, né se la loro storia d’amore, se di amore si può parlare, sarà coronata da un lieto fine. L'interesse di Resnais si sposta altrove, verso una riflessione ben più profonda: egli si preoccupa di raffigurare non solo chi perde la propria identità senza averne coscienza, ma anche la progressiva disintegrazione dell'individuo all'interno di una società che ne annulla le specificità. In questo palazzo senza tempo, le persone sono ridotte a mere funzioni sociali, a gusci vuoti che si muovono secondo rigidi protocolli, quasi un commento esistenziale sulla perdita di significato nell'era post-bellica, dove l'identità personale si dissolve nel conformismo e nella recita quotidiana di un ruolo privo di sostanza.
Ogni persona coinvolta in questa storia non ha nome, né importa che lo abbia. Questa scelta radicale e volutamente depersonalizzante non è un espediente, ma una componente essenziale della visione autoriale. L'anonimato eleva i personaggi a archetipi, a figure universali che incarnano stati d'animo e dilemmi esistenziali piuttosto che personalità complesse. Essi sono meno individui e più proiezioni, quasi fantasmi di una memoria collettiva o di un incubo condiviso. Tale formalismo, quasi clinico nella sua osservazione distaccata, priva lo spettatore di un punto di identificazione emotiva, costringendolo a confrontarsi con il film su un piano puramente intellettuale e contemplativo, come di fronte a un'astrazione pittorica o una composizione musicale.
La società stessa, come ritratta da Resnais, sembra costituita da un'inquietante galleria di non-identità senza tempo, uomini e donne incasellati in luoghi senza passato, senza presente e senza futuro che si fondono in un'eterna e statica messa in scena. La villa diviene una metafora per una prigione dorata, un mondo claustrofobico di apparenze dove il tempo si è fermato in un eterno adesso, negando qualsiasi progressione o sviluppo. È un'immagine potente di un'Europa post-traumatica, forse, che si aggrappa a riti e convenzioni per mascherare il vuoto interiore, una critica sottile all'alienazione borghese e alla decadenza di un'aristocrazia che si auto-conserva nella sua pomposa irrilevanza, incapace di confrontarsi con una realtà esterna che non sia il proprio rifugio autoreferenziale.
L’atemporalità e la non-identità, dunque, non sono meri espedienti narrativi, ma le chiavi di lettura fondamentali di questa storia, enigmatica e profondamente risonante, che permane a lungo nella memoria dello spettatore. La sua influenza è stata profonda, ispirando generazioni di cineasti a osare con la narrazione e la percezione: è impossibile non riconoscere echi della sua logica onirica e della sua estetica ossessiva in opere di registi come David Lynch, con i suoi labirinti mentali e le sue identità fluide, o Christopher Nolan, con le sue architetture narrative complesse e i giochi temporali. L’Anno scorso a Marienbad non è solo un film; è un'esperienza sensoriale e intellettuale che, lungi dal fornire consolatorie conclusioni, lascia dietro di sé lacerti d’inquietudine, sfide persistenti alla nostra comprensione del reale, e domande senza risposta che continuano a tormentare e affascinare, rendendolo un capolavoro senza tempo del cinema sperimentale.
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