L'arpa birmana
1956
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Regista
Un canto si leva nella giungla birmana, un'eco malinconica di "Hanyu no Yado" – che noi occidentali conosciamo come "Home, Sweet Home". Non è l'inno di un esercito vittorioso, né il lamento di uno sconfitto. È qualcosa di più strano, di più puro: è un coro di soldati giapponesi che, armi in pugno e sull'orlo della resa, usano la musica come ultimo scudo contro la follia, come ultimo ponte verso un'umanità condivisa. A guidarli, l'arpa di un soldato semplice, Mizushima. In questa scena seminale, Kon Ichikawa non mette in scena una tregua, ma una trasfigurazione. Il campo di battaglia, per un istante, diventa un auditorium, e i soldati di opposti schieramenti si scoprono uniti non da un trattato, ma da una melodia universale sulla nostalgia di casa. È l'ouverture di un'opera cinematografica che trascende il genere del film di guerra per diventare un poema elegiaco, una parabola buddista sulla compassione e il peso della memoria.
"L'arpa birmana" è un film che respira l'aria rarefatta delle grandi allegorie. La sua narrazione, tratta dall'omonimo romanzo per ragazzi di Michio Takeyama, segue una traiettoria che ricorda meno i manuali di strategia militare e più i viaggi iniziatici della letteratura archetipica. La sua struttura è quella di un'Odissea al contrario. Se l'eroe omerico lotta contro mostri e dei per tornare alla sua Itaca, il soldato Mizushima, separato dal suo plotone alla fine della Seconda Guerra Mondiale, intraprende un viaggio che lo allontana progressivamente da casa, ridefinendo il concetto stesso di "ritorno". La sua Itaca non è più un luogo geografico, un focolare in Giappone, ma uno stato dell'anima, un dovere spirituale contratto con le migliaia di anime insepolte che popolano il paesaggio birmano come un muto, terribile monito.
La discesa di Mizushima nel cuore di tenebra della Birmania post-bellica è un pellegrinaggio attraverso un inferno dantesco spogliato di ogni fiammeggiante punizione divina e riempito, invece, del silenzio assordante dell'abbandono. Ichikawa, con una maestria formale che lo colloca tra i giganti del cinema giapponese, orchestra un requiem visivo. La sua cinepresa, guidata dalla fotografia sublime e contrastata di Masao Tamai, non si sofferma sulla violenza della battaglia – il film, significativamente, inizia quando la guerra è di fatto finita – ma sui suoi resti, sulle sue conseguenze spettrali. Le piramidi di teschi e le ossa sparse nei campi, sulle rive dei fiumi, tra le rovine dei templi, non sono elementi di un film dell'orrore, ma le sillabe di un discorso sulla fragilità umana. C'è un'eco della pittura di Goya de "I disastri della guerra", ma filtrata da una sensibilità orientale che sostituisce l'urlo di rabbia con un sospiro di compassionevole accettazione. Mizushima non vede nemici o compatrioti in quei resti; vede solo uomini, la cui ultima dignità risiede nell'essere ricordati e onorati con una degna sepoltura.
Il percorso di trasformazione del protagonista è un capolavoro di sottrazione. Mizushima viene spogliato di tutto: della sua unità, della sua uniforme, della sua identità di soldato dell'Impero. Derubato e lasciato per morto, viene salvato da un monaco e, per sopravvivere, ne indossa le vesti. Ma quello che inizia come un travestimento diventa una rivelazione. La tunica color zafferano non è più un costume, ma una seconda pelle. La rasatura del capo non è una mimetizzazione, ma un rito di passaggio. Mizushima muore come soldato per rinascere come bhikkhu, un monaco mendicante. La sua arma, l'arpa che un tempo serviva a cementare il morale della truppa, si trasforma in uno strumento di preghiera, un veicolo per placare le anime erranti. Ichikawa mette in scena una delle più potenti e anticonvenzionali metamorfosi del cinema: il guerriero che diventa sacerdote, non per espiare una colpa personale, ma per farsi carico di una colpa collettiva. È un percorso che riecheggia la crisi di coscienza del principe Arjuna nel Bhagavad Gita, ma con una risoluzione che non sta nell'accettazione del proprio dovere di guerriero (dharma), bensì nella sua trascendenza verso un dharma superiore e universale.
Questo film non avrebbe potuto nascere in nessun altro luogo o tempo se non nel Giappone del 1956. A poco più di un decennio dalla catastrofe atomica e dalla resa incondizionata, la nazione si trovava in un complesso processo di auto-analisi, di elaborazione del lutto e di ridefinizione della propria identità. "L'arpa birmana" è uno dei frutti più maturi e toccanti di questo processo. Senza mai indulgere nel revisionismo o nell'autoassoluzione, il film offre una via d'uscita spirituale dal trauma. Non si interroga sulle cause della guerra o sulle responsabilità politiche; la sua è una disamina esistenziale. Si chiede: cosa resta di un uomo, e di una nazione, dopo la devastazione totale? La risposta che offre è radicalmente pacifista e umanista: resta il dovere verso i morti, la responsabilità di trasformare la memoria del dolore in un atto di pietà. In questo, si distacca nettamente dalla coeva cinematografia bellica americana, spesso incentrata sull'eroismo, sul sacrificio per la patria o sulla critica alla catena di comando. Ichikawa sposta l'obiettivo dalla nazione all'individuo, e dall'individuo all'intera umanità.
L'approccio di Ichikawa è di una modernità sorprendente. La sua regia è precisa, quasi geometrica, ma mai fredda. Le sue inquadrature spesso isolano le figure umane in paesaggi vasti e indifferenti, sottolineando la loro piccolezza di fronte alla natura e alla morte. Questa sensibilità visiva lo avvicina più a un Antonioni che a un Kurosawa. C'è una qualità meta-testuale nel viaggio di Mizushima: lui diventa lo spettatore per eccellenza, colui che è costretto a "vedere" l'orrore che gli altri si lasciano alle spalle per tornare a casa. E, scegliendo di restare, si fa custode di quella visione, trasformandola in una missione. In un certo senso, "L'arpa birmana" è un film sul cinema stesso: sulla capacità delle immagini e dei suoni di dare forma e senso al caos, di offrire sepoltura simbolica a ciò che è stato perduto per sempre.
Il finale è di una struggente bellezza. I compagni di Mizushima, in attesa di essere rimpatriati, capiscono finalmente la scelta del loro amico. Non è una diserzione, ma un'ascensione. La lettera che Mizushima affida a un pappagallo – unico, fragile ponte di comunicazione con il suo passato – spiega la sua decisione con una semplicità disarmante. Resterà in Birmania finché l'ultimo soldato giapponese non avrà trovato pace. Lo vediamo, figura solitaria e ieratica, stagliarsi contro il tramonto, la sua arpa in spalla, non più come un soldato che marcia verso la battaglia, ma come un Bodhisattva che ha scelto di rimandare il proprio nirvana per alleviare la sofferenza del mondo. È un'immagine che si imprime nella coscienza, un'icona cinematografica che riassume la dolorosa ma necessaria metamorfosi di un'intera nazione e, in definitiva, la ricerca universale di redenzione nel cuore dell'abominio. "L'arpa birmana" non è solo un capolavoro del cinema giapponese; è un monumento alla capacità dell'arte di trovare un canto di speranza nel più assordante silenzio della morte.
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