L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat
1896
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Registi
In principio non fu il Verbo, ma l'urlo. Un urlo primigenio, forse apocrifo ma narrativamente necessario, che segna il peccato originale del Cinema: la sua diabolica, irresistibile capacità di plasmare la realtà e di scaraventarla addosso allo spettatore. La leggenda, troppo bella per non essere vera, vuole che i primi spettatori di L'arrivée d'un train en gare de La Ciotat siano fuggiti in preda al panico, convinti che la locomotiva a vapore stesse per sfondare lo schermo del Salon Indien du Grand Café di Parigi e travolgerli. È il momento fondativo, il battesimo del fuoco di un'arte che nasce già come prestigiatrice, come imbonitrice da fiera capace di vendere illusioni così potenti da scatenare reazioni viscerali. Che l'aneddoto sia storicamente accurato o un geniale colpo di marketing ante litteram dei fratelli Lumière, poco importa. Esso costituisce la Genesi del nostro canone, il punto zero da cui tutto si irradia, la dimostrazione che il cinema non è mai stato una semplice registrazione del reale, ma la sua trasfigurazione in un'esperienza.
Analizzare quest'opera di cinquanta secondi con gli strumenti della critica contemporanea è un esercizio tanto assurdo quanto indispensabile. È come eseguire un'autopsia su un fotone per capire la natura della luce. Eppure, in questa singola inquadratura fissa, in questo frammento di tempo imbalsamato, è già contenuto l'intero DNA del linguaggio cinematografico, pronto a esplodere nelle sue infinite mutazioni. La scelta dell'inquadratura, innanzitutto, è tutt'altro che ingenua. La diagonale tracciata dai binari, che dal fondo a destra si proietta verso il primo piano a sinistra, è una lezione di prospettiva che Masaccio avrebbe approvato. Crea un senso di profondità, una terza dimensione che all'epoca dovette apparire come stregoneria. La macchina da presa non è posizionata frontalmente, in una statica bidimensionalità da palcoscenico teatrale, ma angolata, dinamica, quasi a voler risucchiare lo sguardo dello spettatore nel vortice del movimento che sta per arrivare. È l'invenzione della profondità di campo prima ancora che Orson Welles ne facesse il suo vessillo stilistico in Quarto Potere.
Il treno, questo mostro sbuffante d'acciaio e vapore, non è un semplice soggetto. Nel 1895, è il simbolo per eccellenza della modernità, il motore della Seconda Rivoluzione Industriale, l'agente che ha compresso lo spazio e accelerato il tempo. La sua irruzione nell'inquadratura è l'irruzione del futuro nel presente. È il manifesto del Futurismo prima che Marinetti scrivesse una sola riga, una celebrazione della "bellezza della velocità" colta nella sua forma più pura e terrificante. Il treno che avanza è una metafora inarrestabile del progresso, e lo sguardo della macchina da presa (e, per estensione, il nostro) è quello dell'uomo della Belle Époque, diviso tra lo stupore per le nuove possibilità e un'inconscia ansia per la potenza soverchiante della macchina.
Ma L'arrivée non è solo un saggio sulla tecnologia. Appena il treno si ferma, l'attenzione si sposta sulla banchina, e il film si trasforma in qualcos'altro. Diventa un documento etnografico, un frammento di vita quotidiana che assume, a più di un secolo di distanza, una potenza fantasmatica. Le persone che scendono e salgono, i facchini che trasportano bagagli, le signore con i loro cappelli piumati e gli uomini in bombetta, non sono attori. Sono esseri umani reali, inconsapevoli di essere diventati eterni. Osservarli oggi è un'esperienza che sconfina nel perturbante freudiano, nell'Unheimlich. Stiamo guardando dei fantasmi, spettri catturati dalla celluloide che continuano a ripetere i loro gesti in un loop infinito. In questo, i Lumière anticipano di decenni il Neorealismo, la Nouvelle Vague e il cinema-verità. Il loro cinema è un occhio spalancato sul mondo, che trova il dramma e la poesia non nella finzione costruita, ma nella banalità del quotidiano. Ogni volto nella folla è una potenziale storia, un romanzo non scritto che lo spettatore è invitato a immaginare. È il grado zero della narrazione, dove il racconto non è imposto ma emerge spontaneamente dal flusso della vita.
Questa dicotomia tra la spettacolarità tecnologica (il treno) e l'osservazione documentaristica (le persone) rappresenta la prima, fondamentale biforcazione nel sentiero del cinema. Da una parte, la via dello stupore e dell'attrazione, che sarà percorsa dal mago Georges Méliès con i suoi viaggi sulla luna e le sue donne che svaniscono. Dall'altra, la via del realismo, della registrazione del vero, che influenzerà tutta la corrente documentaristica e neorealista. In questi cinquanta secondi, i due poli opposti del cinema – la meraviglia e la verità, l'artificio e la realtà – coesistono in un equilibrio miracoloso e irripetibile.
A un livello più meta-testuale, il film può essere letto come una allegoria del cinema stesso. Il treno che arriva è il film che irrompe nella vita dello spettatore. La banchina è la sala cinematografica, un luogo di transito dove persone diverse si riuniscono per un breve lasso di tempo, condividendo un'esperienza prima di disperdersi di nuovo nelle loro vite. I passeggeri che scendono sono le storie e i personaggi che il film ci consegna, mentre quelli che salgono rappresentano forse le nostre proiezioni, i nostri desideri, le nostre paure che investiamo nell'opera. Lo schermo, come la banchina, è un luogo liminale, un confine tra il mondo reale e un altrove immaginifico. E il viaggio che il treno promette è il viaggio che ogni film ci offre: un'evasione temporanea dalla nostra stazione di partenza.
È impossibile non vedere l'ombra lunga di questa locomotiva proiettarsi su tutta la storia del cinema. C'è un filo rosso che lega questo treno a quello che porta Charles Bronson a Flagstone in C'era una volta il West, o al treno blindato di The Great Train Robbery di Porter, il primo western narrativo della storia. E non è forse un'eco di quello spavento primordiale che proviamo quando la Morte Nera appare per la prima volta sopra Tatooine in Guerre Stellari o quando il monolito nero si erge silenzioso di fronte alle scimmie in 2001: Odissea nello spazio? Ogni volta che il cinema ha voluto rappresentare l'arrivo di una forza ineluttabile, maestosa e sconvolgente – sia essa tecnologica, aliena o divina – è tornato, consciamente o meno, a quella prima, terrificante apparizione sulla banchina di La Ciotat.
L'arrivée d'un train en gare de La Ciotat non è semplicemente un film. È una singolarità cosmologica, un punto di densità infinita da cui si è generato l'universo cinematografico. È un'opera che contiene in sé il proprio mito fondativo, la propria analisi tecnica e la propria profezia sul futuro. Non è un capolavoro nel senso tradizionale del termine, non ha una sceneggiatura, una recitazione o un montaggio da lodare. Il suo genio risiede altrove: nell'aver catturato un istante e averlo trasformato in un'icona immortale, nell'aver compreso intuitivamente che l'essenza del cinema non sta solo nel mostrare qualcosa, ma nel modo in cui lo si mostra e nella reazione che questo scatena. È il Big Bang. E dopo più di 125 anni, lo spostamento d'aria di quel treno in arrivo si sente ancora.
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