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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Leviathan

2012

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Spiaggiato sulla riva desolata del Mare di Barents, lo scheletro di una balena è il primo e ultimo geroglifico che il film ci offre. Un fossile monumentale, carcassa di un dio marino o forse di un demone biblico, che giace come un memento mori contro il cielo color ardesia. È l'immagine-totem, l'Ozymandias osseo attorno a cui Andrey Zvyagintsev orchestra la sua sinfonia funebre, una partitura di schiacciante, ineluttabile tragedia che non si limita a raccontare una storia, ma disseziona l'anatomia stessa del Potere. Leviathan non è un film, è un trattato di teologia politica mascherato da dramma umano; è il Libro di Giobbe riscritto da Thomas Hobbes e filmato da un Andrej Tarkovskij privato di ogni speranza trascendente.

Il nostro Giobbe moderno si chiama Kolya, un meccanico testardo e orgoglioso che vive con la seconda moglie Lilya e il figlio adolescente Romka in una casa che si è costruito con le sue mani. Una casa con una vista mozzafiato sulla baia, un piccolo regno di normalità abbarbicato sul bordo del mondo. Ma questo suo piccolo feudo, questo brandello di esistenza autonoma, sorge su un terreno che fa gola al sindaco Vadim, un piccolo satrapo locale la cui corruzione è così sfacciata da diventare una forma d'arte, un'emanazione naturale del paesaggio. La lotta di Kolya per non essere espropriato è l'innesco di una discesa agli inferi che ha la precisione geometrica di un teorema e la crudeltà di un sacrificio rituale.

Zvyagintsev, da sublime architetto narrativo quale è, non si accontenta di mettere in scena il classico scontro tra Davide e Golia. Qui Golia non è nemmeno un avversario che puoi guardare negli occhi. È un'entità astratta, un sistema onnicomprensivo e autoreferenziale. Il Leviatano, appunto. Non è solo il sindaco Vadim, ma l'intera catena alimentare che da lui si dipana: i giudici che leggono sentenze già scritte con monotonia burocratica, i poliziotti che eseguono ordini con rassegnata indifferenza, e, in un connubio tanto antico quanto terrificante, la Chiesa Ortodossa che fornisce la giustificazione teologica all'abuso. In una scena capitale, il prete locale, con la serenità di chi maneggia verità eterne, spiega al sindaco che ogni potere viene da Dio, santificando di fatto la sua tirannia. È la più gelida e precisa rappresentazione del legame simbiotico tra trono e altare, un'alleanza che non serve a elevare l'uomo ma a schiacciarlo con il doppio peso della legge terrena e di quella divina.

La macchina da presa di Mikhail Krichman, collaboratore abituale di Zvyagintsev, è uno strumento di analisi spietato. Le sue inquadrature sono spesso fisse, ampie, quasi pittoriche, e sembrano ispirarsi tanto alla desolazione metafisica di certa pittura romantica – si pensi al Monaco in riva al mare di Caspar David Friedrich – quanto alla sacralità geometrica del già citato Tarkovskij. I personaggi sono spesso figure minute, inghiottite da un paesaggio maestoso e indifferente, un non-luogo di cieli bassi, acque gelide e terra brulla. L'ambiente non è uno sfondo, ma un protagonista, un'entità che riflette e amplifica il vuoto spirituale dei suoi abitanti. La palette glaciale, dominata dai blu, dai grigi e dai marroni fangosi, non è un vezzo estetico, ma una dichiarazione ontologica: questo è un mondo dal quale il calore, sia fisico che umano, è stato prosciugato.

Il parallelismo con Giobbe è il cuore filosofico dell'opera. Kolya, come il suo predecessore biblico, perde tutto: la casa, il lavoro, la moglie, la libertà. Ma mentre a Giobbe, alla fine, Dio risponde dal turbine, mostrandogli la vastità incomprensibile del suo piano e il Leviatano come simbolo della sua stessa potenza, a Kolya non risponde nessuno. Il suo "Perché?" si perde nel vento del nord. Il Leviatano che lo divora non è una creatura divina la cui logica è al di là della comprensione umana, ma un mostro interamente umano, un costrutto sociale che ha raggiunto una tale massa critica da diventare una forza della natura. È il trionfo del Leviatano di Hobbes, dove l'uomo cede la libertà in cambio della sicurezza, ma in una versione perversa in cui lo Stato non offre più alcuna sicurezza, esigendo solo una sottomissione assoluta. La legge, qui, non è uno strumento di giustizia, ma un'arma. Le aule di tribunale sono teatri dell'assurdo che farebbero impallidire quelli di Kafka: la burocrazia diventa un linguaggio esoterico progettato per confondere e sfinire, un labirinto senza Minotauro perché il labirinto stesso è il mostro.

In questo universo nichilista, l'unica via di fuga, l'unico sacramento rimasto, è la vodka. Il suo consumo nel film è incessante, omerico, quasi liturgico. Funge da anestetico contro il dolore dell'esistenza, da carburante per conversazioni che girano a vuoto, da catalizzatore per esplosioni di violenza e di momentanea, disperata fratellanza. Durante una memorabile scampagnata, Kolya e i suoi amici usano i ritratti di vecchi leader sovietici come bersagli per il tiro a segno, in un gesto che è insieme catartico e futile. Non importa quale volto abbia il potere, suggerisce Zvyagintsev, la sua natura oppressiva rimane immutata. È un carnevale malinconico, un'eco lontana e disperata della tradizione russa del "santo folle", lo jurodivyj, che poteva dire la verità al potere proprio perché ai margini della società. Ma qui non c'è più verità da dire, solo una rabbia impotente da annegare nell'alcol.

Il dramma sistemico si specchia e si amplifica in quello personale. La tragedia di Kolya non è solo pubblica, ma profondamente intima. Il tradimento della moglie Lilya con l'avvocato moscovita, l'amico venuto ad aiutarlo, non è un semplice subplot da melodramma. È il chiasmo perfetto della storia principale: la corruzione del Leviatano si insinua nelle crepe delle relazioni umane, le avvelena, le distrugge dall'interno. Il sistema non ti schiaccia solo dall'esterno, ma ti svuota anche dall'interno, togliendoti la fiducia, l'amore, la lealtà. La disperazione di Lilya, il suo volto che è una maschera di sofferenza muta, è forse ancora più straziante di quella di Kolya. Lei è la vittima collaterale, colei che intuisce prima di tutti l'impossibilità di una via d'uscita e sceglie l'unica, terribile forma di libertà che le rimane.

Il finale è di una potenza devastatrice. Sulle rovine della casa di Kolya, rasa al suolo dalle ruspe con la freddezza di un'operazione chirurgica, sorge una nuova, sfarzosa chiesa. Il sindaco, durante la predica inaugurale, ascolta parole sulla verità e la giustizia divina con un'espressione di compunta ipocrisia. Il cerchio si chiude. Il Leviatano non ha solo divorato la sua preda; ha consacrato il luogo del delitto, trasformando un atto di sopruso in un'opera di bene. La Verità, come dice il prete, è in Dio, ma è una Verità che ora serve a giustificare la più sfacciata delle menzogne. Il vecchio scheletro di balena sulla spiaggia, che all'inizio poteva sembrare un simbolo di morte e decadenza, assume un nuovo significato: è il fossile di un potere antico, naturale, forse persino divino. Il nuovo Leviatano, quello di cemento e oro, quello costruito sulla menzogna e sul sangue, è molto più spaventoso. È una tragedia universale che, pur affondando le sue radici nel suolo di una Russia contemporanea riconoscibilissima (il ritratto di Putin nell'ufficio del sindaco è un dettaglio tutt'altro che casuale), trascende il suo contesto per parlare a chiunque, in qualsiasi luogo, si sia mai sentito piccolo e inerme di fronte all'arroganza del potere. Zvyagintsev ha forgiato un capolavoro tetro e magnifico, un film che non si limita a osservare l'abisso, ma ci costringe a sentirne il fiato gelido sul collo.

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