Miracolo a Milano
1951
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Regista
Siamo fatti della stessa Materia di cui sono fatti i Sogni, e nello spazio di un sogno è racchiusa la nostra breve vita. Così Shakespeare, per bocca di Prospero ne La Tempesta, consegnava al mondo una conturbante visione della realtà che poi il drammaturgo spagnolo Calderón de la Barca rielaborò in una propria poetica in cui il Sogno (la Favola) assumesse connotazione ontologica: La Vida es Sueño. Vittorio De Sica, da sensibile artista del suo tempo, rielabora questa conturbante lezione secentesca dei due grandi uomini di Teatro, infondendo nel suo film Miracolo a Milano (1951) un carattere onirico e al contempo saldamente neorealista, riuscendo mirabilmente a fondere i due piani semantici in un'unica, affascinante e controversa opera. È un gesto di una audacia sfrontata: dopo aver mappato con una precisione quasi documentaristica la desolazione dell'Italia del dopoguerra in capolavori come Sciuscià e Ladri di biciclette, De Sica osa chiedersi: cosa resta all'uomo quando la realtà è così insopportabile? La sua risposta è tanto semplice quanto rivoluzionaria: la fantasia.
E davvero ogni fibra, ogni fotogramma di questo film pare permeato di questo spirito dualistico che divide il Mondo in Sogno e Materia, sospeso tra Favola e Realtà. Quello che De Sica e il suo geniale sceneggiatore Cesare Zavattini creano è un nuovo genere, il Neorealismo Magico, un ossimoro che diventa un programma estetico e politico. De Sica realizza questa operazione con una naturalezza disarmante, riuscendo a raccontare una storia che incorpora frammenti fantastici con magico disincanto, quasi che veder librarsi i due protagonisti su una scopa sospesi su una Milano di Pietra e Carne, fosse il naturale epilogo della vicenda. Il suo approccio ricorda la grazia del realismo poetico francese di un René Clair, ma è soprattutto al grande cinema muto che guarda. Il suo protagonista, Totò il Buono, non è un personaggio, è un archetipo, un discendente diretto del Charlot di Charlie Chaplin. Come il vagabondo chapliniano, Totò è un "santo idiota", un'anima pura e ottimista la cui innocenza si scontra con la cinica brutalità del mondo moderno. Ma se la comicità di Chaplin era spesso velata di una profonda malinconia, quella di De Sica è pervasa da un'allegria quasi anarchica e da una fede incrollabile nella solidarietà umana, un tratto che lo avvicina alle favole populiste di Frank Capra.
Totò nasce letteralmente sotto un cavolo, in un orto della periferia milanese, e viene adottato da un'adorabile vecchietta, Lolotta, che lo cresce insegnandogli la bontà e la meraviglia. Ben presto però la donna muore e, volando in cielo, lo lascerà, gettandolo di fatto in pasto al Mondo e ai suoi feroci meccanismi. Ma il disincanto, la tenerezza e la spontaneità del ragazzo lo accompagnano in ogni momento della sua vita e ben presto, superata la fase dell'orfanotrofio, correrà libero per le strade di una Milano grigia e indifferente, senza più il peso di tutori legali. Troverà accoglienza presso una baraccopoli di disperati ai margini della città e comincerà in questa comunità la sua opera di ricostruzione, organizzando i suoi concittadini in una sorta di utopia socialista in miniatura, una repubblica dei poveri basata sull'aiuto reciproco e sulla gioia delle piccole cose. Ben presto, però, questa Città dei Reietti viene insidiata da un ricco e losco figuro, il capitalista Mobbi, che, dopo la scoperta accidentale di un giacimento di petrolio proprio sotto la baraccopoli, intravede nella zona la possibilità di un profitto immenso. Inizia così una comica e al contempo tragica battaglia tra gli sgherri del Riccastro, armati di manganelli e gas lacrimogeni, e l'esercito degli Ultimi, guidato da Totò. Proprio quando ogni cosa sembra precipitare e la violenza del potere sta per avere la meglio, l'intervento della Madrina del ragazzo, il fantasma della sua madre adottiva, risulterà determinante. Totò infatti riceve in dono dallo Spirito della donna, una Colomba magica che esaudisce ogni desiderio. Un alone di magia squarcerà le plumbee vesti del degrado, donando a Totò e al suo piccolo esercito una via di vittoria e redenzione, anche se solo temporanea. La colomba non è un deus ex machina che risolve il conflitto di classe; è uno strumento di resistenza, un'arma della fantasia che permette ai poveri di rispondere alla violenza del potere con miracoli surreali e gioiosi.
Miracolo a Milano è un'opera fondamentale nel Cinema Italiano che introduce un nuovo, rivoluzionario linguaggio. De Sica non rifiuta la lezione del Neorealismo, il suo sguardo sulla povertà, sulle periferie e sugli ultimi è ancora lì, intatto. Ma la arricchisce, la completa, la scuote con la semplice forza della Fantasia, suggerendo che per comprendere la realtà fino in fondo, e soprattutto per sopportarla, a volte è necessario guardarla attraverso le lenti della favola. Questa fu una grande rivoluzione che non avrebbe tardato a dare i suoi frutti, ma che all'epoca scatenò un putiferio. Il film, pur trionfando a Cannes, fu attaccato ferocemente in Italia da fronti opposti. La destra democristiana e la Chiesa lo accusarono di essere un'opera sovversiva, quasi comunista, che offriva un'immagine degradata e poco lusinghiera dell'Italia del boom economico. Dall'altro lato, la critica marxista più ortodossa accusò De Sica e Zavattini di aver tradito il Neorealismo, di essere fuggiti dalla rigorosa analisi sociale per rifugiarsi in un "infantilismo" fiabesco. La colomba magica fu vista come una scorciatoia, un intervento divino che sostituiva la necessità della lotta politica. Entrambe le critiche, a ben vedere, non colsero il punto. La fantasia in Miracolo a Milano non è una fuga dalla realtà, ma la sua critica più radicale. È un film che, con la sua leggerezza, ci dice che in un mondo così ingiusto e diseguale, solo un miracolo potrebbe garantire ai poveri un raggio di sole o un pasto caldo, svelando così l'assurdità di quel mondo stesso.
Il finale è una delle immagini più iconiche e liberatorie della storia del nostro cinema. Sconfitti, scacciati ancora una volta, i poveri si ritrovano in Piazza del Duomo, il cuore pulsante e borghese di Milano. Circondati dalla polizia, il loro destino sembra segnato. Ma Totò, con un ultimo desiderio concesso dalla colomba, fa sì che le scope degli spazzini si animino. E così, in una sequenza di una gioia anarchica e indimenticabile, l'intera comunità dei diseredati si libra in volo sulle scope, sorvolando la cattedrale e fuggendo verso un luogo ignoto. "Dove andiamo?", chiede qualcuno. "Verso un regno dove 'buongiorno' vuol dire veramente 'buongiorno'", risponde Totò. È un finale di una bellezza e di un'ambiguità potentissime. È una fuga, non una vittoria. Ma è la vittoria dell'immaginazione, la celebrazione della capacità dell'uomo di sognare un mondo diverso, anche quando quello reale sembra non offrire alcuna via d'uscita. Per questo suo coraggio di essere inclassificabile—un film politico con l'anima di una fiaba, un'opera neorealista che osa sognare—Miracolo a Milano rimane un capolavoro unico e irripetibile, un promemoria del fatto che il cinema, a volte, non serve a mostrarci il mondo com'è, ma a indicarci come potrebbe essere.
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