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Paper Moon - Luna di carta

1973

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Una fotografia, in fondo, non è che una bugia ben costruita. Una frazione di secondo sottratta al caos, incorniciata e presentata come verità. E nessuna bugia è più sfacciata, più deliziosamente artificiale di quella di una luna di carta ritagliata contro un fondale dipinto, un sorriso forzato sotto le luci di una fiera di paese. È in questo fragile patto di finzione, in questo mondo posticcio che diventa reale solo se ci si crede, che Peter Bogdanovich racchiude l'intera cosmogonia del suo capolavoro, Paper Moon. Il film stesso è una luna di carta: un artefatto del 1973 che si finge una pellicola del 1936, una commedia che nasconde la disperazione della Grande Depressione, una storia di truffatori che racconta la più onesta delle verità sulla natura della famiglia.

Bogdanovich, qui, non è un semplice regista; è un archeologo cinematografico, un medium che evoca gli spiriti di un’era hollywoodiana perduta. La sua cinefilia non è citazionismo postmoderno, ma un atto di reincarnazione stilistica. Paper Moon non ricorda i film di John Ford o Howard Hawks; è, nella sua essenza molecolare, un film che Ford o Hawks avrebbero potuto girare. La fotografia in bianco e nero di László Kovács non è una scelta estetica, è un imperativo ontologico. Quei cieli immensi e vuoti del Kansas, le strade polverose che si perdono all'orizzonte, le facciate scrostate delle locande non sono il prodotto di un filtro nostalgico, ma un distillato purissimo dell'immaginario visivo della Farm Security Administration. Ogni inquadratura sembra una fotografia di Walker Evans o Dorothea Lange a cui è stata infusa la vita, un mondo di dignità esausta e silenziosa povertà che diventa il palcoscenico per una delle più improbabili e perfette coppie della storia del cinema.

La coppia, naturalmente, è quella formata da Moses Pray e Addie Loggins. Un venditore di Bibbie porta a porta (che in realtà non vende) e una bambina di nove anni rimasta orfana (che forse è sua figlia). La scelta di casting di Ryan O'Neal e della sua vera figlia, Tatum, è un colpo di genio meta-testuale che eleva il film al di là del semplice racconto. Si crea una vertigine tra finzione e realtà: l'alchimia sullo schermo non è solo recitata, è vissuta, e la loro dinamica è un campo di battaglia elettrico di affetto non dichiarato e pragmatismo spietato. Lui, Moses, è un imbroglione da quattro soldi, un uomo la cui intera esistenza è basata sulla performance, ma la cui performance migliore è quella di non voler essere un padre. Lei, Addie, è il suo specchio e la sua coscienza. Con la sua sigaretta perennemente tra le dita e uno sguardo che trafigge ogni menzogna, Addie non è una bambina; è un adulto in miniatura, un prodotto della Depressione che ha saltato a piè pari l'infanzia per arrivare direttamente alla sopravvivenza.

La loro relazione è un capolavoro di scrittura e interpretazione, un duetto che ricorda la cadenza fulminante delle screwball comedy di Hawks, ma con un sottotesto di malinconia che quelle commedie raramente possedevano. Il loro non è un legame che nasce dall'amore, ma da un contratto commerciale. Addie non chiede affetto, chiede i duecento dollari che le spettano. È attraverso il linguaggio della truffa, del raggiro, che i due imparano a comunicare e, infine, a volersi bene. La loro complicità nel frodare vedove credulone o contrabbandieri di whisky diventa l'unica forma di intimità che conoscono. In questo, Paper Moon si rivela come il più grande erede spirituale di Huckleberry Finn. Le strade polverose del Midwest sono il loro fiume Mississippi, e Moses Pray è una fusione del Duca e del Re, un cialtrone patentato che viene costantemente salvato, e redento, dall'innata intelligenza e dal codice morale sorprendentemente solido della sua giovane compagna di viaggio. Addie è Huck, l'osservatrice acuta di un mondo di adulti corrotto e ridicolo, colei che, pur vivendo di inganni, possiede l'unica bussola morale funzionante.

Il paesaggio americano che attraversano non è un semplice sfondo. È un personaggio, un purgatorio di desolazione economica che giustifica e contestualizza le loro azioni. In un paese dove il sistema stesso è una truffa, dove il Sogno Americano si è rivelato una luna di carta, l'arte dell'imbroglio diventa una forma di resistenza, quasi un atto di giustizia poetica. Bogdanovich non giudica mai i suoi protagonisti. Al contrario, li ammira, perché nella loro disonestà c'è una purezza e una logica che mancano al mondo "onesto" che li circonda. La loro esistenza picaresca, fatta di episodi, incontri e fughe, è una danza sul baratro della miseria, resa sopportabile solo dall'arguzia e da un umorismo secco come la terra che calpestano.

E poi c'è Trixie Delight, interpretata da una Madeline Kahn semplicemente monumentale. La sua apparizione spezza temporaneamente l'equilibrio della coppia, introducendo un elemento di caos melodrammatico e di patetismo quasi tennesseewilliamsiano. Trixie è un'altra bugia ambulante, una "ballerina" la cui sensualità stanca e disperata è l'opposto speculare della praticità di Addie. È un personaggio tragico, un fantasma del desiderio in un mondo che non può più permettersi il lusso di desiderare. La sua breve permanenza nel film serve a cementare il legame tra Moses e Addie, a dimostrare che la loro famiglia disfunzionale è, in realtà, l'unica struttura solida in un universo in disfacimento. La scena in cui Addie, con la sua logica infantile e spietata, orchestra l'allontanamento di Trixie è al tempo stesso esilarante e straziante, un perfetto esempio del funambolismo tonale che rende il film così unico.

Il finale è una delle conclusioni più perfette e inevitabili mai concepite. Dopo averla finalmente lasciata, Moses vede la sua Ford Model A arrancare su per una collina, con Addie al volante che lo aspetta. Lei gli rinfaccia di doverle ancora i suoi duecento dollari, il loro mantra, il loro codice segreto. Lui non può fare a meno di sorridere. Non c'è una grande dichiarazione, non c'è un abbraccio catartico. C'è solo l'accettazione che il loro legame, come le loro truffe, è un patto che non può essere sciolto. La strada si stende di nuovo davanti a loro. Il viaggio ricomincia.

Paper Moon è un'elegia per un'America scomparsa e per un cinema che non esiste più, ma è anche un'opera di una modernità sorprendente. È un film sulla performance dell'identità, sulla costruzione della famiglia al di fuori di ogni vincolo biologico o legale, e sul potere salvifico della narrazione. Moses e Addie si raccontano bugie a vicenda e al mondo, ma nel farlo creano la loro unica, incrollabile verità. Proprio come quella vecchia canzone che dà il titolo al film: "È un mondo di Barnum e Bailey, fasullo come non mai / Ma non sarebbe finzione, se tu credessi in me". Loro ci credono. E noi, spettatori complici di questo magnifico inganno, non possiamo fare altro che credere con loro.

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