Perdizione
1988
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Regista
Un grand-guignol operistico, un affresco monumentale sulla putrescenza del potere, una lussureggiante autopsia morale che seziona con bisturi da entomologo il cadavere della civiltà europea. Descrivere Perdizione (ma il titolo originale, La caduta degli dei, è infinitamente più calzante e wagneriano) di Luchino Visconti è un'impresa che rischia di esaurire l'arsenale dei superlativi. L'opera del 1969 non è semplicemente un film; è un'esperienza estetica totalizzante, un rito barocco e crudele che trascina lo spettatore nelle viscere di un inferno sontuoso, dove la bellezza è il velo che copre l'orrore più abissale. Visconti, il regista-aristocratico, il marxista innamorato del melodramma e della decadenza, firma qui il suo testamento più fiammeggiante, orchestrando un requiem per un'intera cultura.
La vicenda della famiglia di industriali dell'acciaio von Essenbeck, specchio deformato e finzionale dei Krupp, è il microcosmo attraverso cui Visconti racconta la macro-storia della Germania che scivola nell'incubo nazista tra il 1933 e il 1934. Ma guai a considerarlo un film storico nel senso didascalico del termine. Perdizione è mito, è tragedia greca traslata nella Ruhr industriale. La dinastia von Essenbeck è la casata degli Atridi, impigliata in una spirale di parricidi, incesti, tradimenti e vendette che farebbe impallidire Eschilo. Il vecchio barone Joachim, patriarca di un mondo morente, viene assassinato la notte stessa dell'incendio del Reichstag. Da quel momento, il castello di famiglia si trasforma in un palcoscenico scespiriano dove i pretendenti al trono d'acciaio – l'arrivista senza scrupoli Friedrich Bruckmann (Dirk Bogarde), l'ambiziosa e manipolatrice Sophie von Essenbeck (Ingrid Thulin), il brutale e dionisiaco SA Konstantin (Reinhard Kolldehoff) e il freddo e calcolatore SS Aschenbach (Helmut Griem) – si sbranano a vicenda.
Visconti, allievo intellettuale di Thomas Mann, traspone sul grande schermo la dialettica di Morte a Venezia e la saga familiare dei Buddenbrook, ma la immerge in un bagno di acido solforico. Se Mann analizzava la decadenza con la precisione di un saggista e la malinconia di un poeta, Visconti la mette in scena con la magniloquenza di un regista d'opera. Ogni inquadratura è un quadro saturo di colore, un'orgia visiva di velluti cremisi, ori opulenti e ombre profonde che sembrano inghiottire i personaggi. La fotografia di Armando Nannuzzi e Pasqualino De Santis non si limita a illuminare la scena, la plasma, la corrompe, trasformando gli interni lussuosi in mausolei, in camere mortuarie dove si celebra la liturgia del male. L'estetica del film è un Gesamtkunstwerk, un'opera d'arte totale dove scenografie, costumi, musica e recitazione si fondono in un unico, soffocante organismo.
Al centro di questo gorgo morale emerge la figura più perturbante e memorabile del film: Martin von Essenbeck, interpretato da un Helmut Berger androgino e spettrale, alla sua epifania cinematografica. Martin è l'incarnazione stessa della perversione e della corruzione. La sua prima apparizione, en travesti mentre canta "Ich bin von Kopf bis Fuß auf Liebe eingestellt" di Marlene Dietrich, non è un semplice vezzo citazionista. È il manifesto del film. In quel fragile e ambiguo corpo che mima la diva simbolo della Repubblica di Weimar, Visconti racchiude tutta l'agonia di una cultura sul punto di essere violentata e annientata. La performance di Martin è l'ultimo, disperato canto del cigno di un'era, prima che la brutalità della storia la spazzi via. La sua traiettoria è la più terrificante: da efebo decadente e vittima di abusi, si trasforma, sotto la guida mefistofelica di Aschenbach, in un automa gelido della SS, un angelo sterminatore che condurrà la sua stessa famiglia alla rovina finale.
Il parallelismo più audace, e per l'epoca scandaloso, che Visconti osa è quello tra la perversione sessuale e la perversione politica. Non si tratta di un'equazione semplicistica, ma di una metafora potentissima. Il nazismo, nella lettura viscontiana, non è solo un'ideologia politica, ma un'eruzione tellurica di pulsioni represse, un'orgia di morte che seduce e contamina ogni cosa. La sequenza della Notte dei Lunghi Coltelli è, in questo senso, il cuore nero del film. Visconti non mostra la purga delle SA come un'operazione militare, ma come un baccanale omoerotico in una locanda sul lago, un sabba pagano di corpi sudati, canti e birra che viene interrotto dal fuoco purificatore e glaciale delle SS. È la vittoria dell'ordine apollineo e mortifero di Himmler sulla caotica e vitale (seppur brutale) energia dionisiaca di Röhm. Una sequenza che sembra uscita da un dipinto di Otto Dix o George Grosz, animata da un furore espressionista che la rende quasi insostenibile. È la rappresentazione del Male non come astrazione, ma come carne, desiderio e, infine, annientamento.
La recitazione è spinta al limite del teatrale, un registro perfettamente coerente con l'impostazione operistica. Dirk Bogarde è un Macbeth moderno, consumato da un'ambizione che non è in grado di sostenere, il suo volto una maschera di angoscia e debolezza. Ingrid Thulin è una Lady Macbeth algida e incestuosa, una vedova nera che tesse la sua tela fino a rimanervi intrappolata. Ma è la dialettica tra Friedrich, che rappresenta l'alta borghesia disposta a ogni compromesso pur di mantenere il potere, e Aschenbach, l'intellettuale che ha messo la sua intelligenza al servizio della barbarie, a svelare il nucleo tematico del film. Il nazismo, ci dice Visconti, non è stato un incidente della storia, ma il prodotto di un patto faustiano tra il capitale industriale e un'ideologia nichilista. Gli industriali come i von Essenbeck hanno creduto di poter usare Hitler per i propri fini, senza capire che sarebbero stati loro a essere usati e infine divorati dalla creatura che avevano contribuito a nutrire.
Il finale è di una coerenza apocalittica. Nella grande sala del castello, ormai spoglia e spettrale, si celebra il matrimonio tra Martin e sua madre Sophie, un'unione incestuosa e necrofila orchestrata da Aschenbach. I due, vestiti a lutto, ridotti a gusci vuoti, si scambiano le fedi e poi ingoiano il cianuro, mentre il saluto nazista risuona come un'eco tombale. È la chiusura del cerchio, l'autodistruzione di una stirpe che ha abbracciato il male fino a diventarne essa stessa l'essenza. La caduta degli dei è completa. Non c'è catarsi, non c'è speranza, solo il silenzio agghiacciante di un potere che si è auto-cannibalizzato.
Perdizione è un film scomodo, eccessivo, a tratti respingente nella sua magniloquenza. Potrebbe essere accusato di estetismo, di compiacersi della propria stessa, sontuosa decadenza. Ma è proprio in questo suo essere "troppo" che risiede la sua grandezza. Visconti non ci offre una lezione di storia, ma uno specchio ustorio che concentra i raggi più oscuri della natura umana e li proietta su uno schermo incandescente. Come un Macbeth ambientato durante l'ascesa del Terzo Reich o come un romanzo di Dostoevskij filmato con la tavolozza di Rubens, Perdizione rimane un'opera d'arte sublime e terrificante, un capolavoro assoluto che ci costringe a guardare nell'abisso, mostrandoci come la civiltà possa partorire la propria stessa, spettacolare, rovina.
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