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Questa è la mia vita

1962

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Sezionare Questa è la mia vita (Vivre sa vie: film en douze tableaux, 1962) è come tentare di eseguire l’autopsia di un fantasma con un bisturi fatto di luce. L’operazione è destinata a fallire nella sua pretesa di oggettività, ma il processo stesso rivela la natura spettrale e insieme iper-reale della creatura cinematografica di Jean-Luc Godard. Non è un film, è un saggio filmato; non è una storia, è un ritratto polittico, un’icona bizantina la cui santità è profanata e, proprio per questo, affermata. Dodici quadri, dodici stazioni di una via crucis laica, dove Nana Kleinfrankenheim (un’Anna Karina la cui stessa esistenza sembra dipendere dalla macchina da presa) non ascende al cielo, ma discende nel più terreno dei mestieri.

Godard, nel suo periodo d’oro di furia creativa quasi incomprensibile (sette lungometraggi in tre anni), abbandona la narrazione semi-lineare de Le Petit Soldat e la decostruzione del genere di Fino all’ultimo respiro per abbracciare una forma che è al contempo saggistica e romanzesca. L’influenza è palesemente letteraria, ma non si tratta del romanzo psicologico ottocentesco. Se la discesa agli inferi di una giovane donna spinta dalla necessità economica alla prostituzione riecheggia Zola o Balzac, l’approccio di Godard è diametralmente opposto. Laddove i naturalisti accumulavano dettagli per creare un’illusione di realtà, Godard frammenta, astrae, crea distanza. È il trionfo del Verfremdungseffekt di Bertolt Brecht, un teatro della crudeltà applicato al cinema dove ogni elemento – dai titoli di capitolo esplicativi, quasi didascalici, alla recitazione a tratti atona, fino ai salti di montaggio e alle rotture della quarta parete – serve a ricordarci che stiamo guardando una costruzione, un artefatto. Ci viene negata la catarsi emotiva per costringerci a un’analisi intellettuale. Non dobbiamo sentire per Nana, dobbiamo pensare a Nana.

Il film è, prima di ogni altra cosa, un trattato ontologico sul volto di Anna Karina. Godard, all’epoca suo marito, la filma con un misto di devozione da iconografo e freddezza da entomologo. La cinepresa di Raoul Coutard, un occhio mobile e curioso, la scruta, la circonda, la adora e la inchioda. Il viso di Karina, con quel caschetto nero che diventerà simbolo di un’intera era e di un intero cinema, diventa una superficie su cui si proiettano le nostre interpretazioni, i desideri degli uomini che la comprano, e la tesi stessa di Godard. È un volto che, come la Garbo, “non ha bisogno di mostrare pensieri per significare pensiero”. Il punto più alto, il cuore esegetico dell’intera opera, è la celeberrima sequenza al cinema. Nana, sola, assiste a La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer. Godard alterna i primi piani di Renée Falconetti sullo schermo a quelli di Anna Karina in platea. In quel montaggio alternato, si compie un miracolo meta-testuale. Nana si specchia nel martirio di Giovanna, la spettatrice si identifica nella santa, l’attrice (Karina) si confronta con un’icona del cinema muto (Falconetti), e noi spettatori osserviamo questo triplice gioco di specchi. Le lacrime di Nana sono vere? Sono di Karina? O sono semplicemente il segno richiesto dal regista? In quel momento, il cinema cessa di essere narrazione e diventa pura riflessione su se stesso: sulla sua capacità di creare e distruggere icone, sulla natura della performance e sulla condizione dello spettatore. La sofferenza femminile diventa un lignaggio cinematografico, trasmesso da un volto all’altro.

Ma Godard non si ferma alla superficie, per quanto magnificamente illuminata. In una delle scene più audaci e anti-cinematografiche che si possano immaginare, Nana dialoga con il filosofo Brice Parain (nel ruolo di se stesso) sul linguaggio, la verità e il pensiero. È un momento che farebbe scappare a gambe levate qualsiasi produttore di Hollywood, un blocco di testo filosofico quasi indigesto inserito a forza nel corpo del film. Eppure, è la chiave di volta. Nana lotta per esprimere un sentimento, una verità interiore, ma le parole la tradiscono. “Pensare è una cosa, parlare è un’altra”, le spiega il filosofo. Questa scissione tra il mondo interiore e la sua espressione esterna è la tragedia di Nana. Costretta a vendere il suo corpo, la sua esteriorità, perde progressivamente contatto con la sua anima, che rimane inarticolata, inespressa. La prostituzione non è solo una condizione economica, ma una metafora della condizione esistenziale dell'essere umano nell'era della riproducibilità tecnica: l'impossibilità di far coincidere l'essere con l'apparire.

Lo stile di Godard è un assalto sistematico alle convenzioni. La scena d’apertura nel caffè, con i due protagonisti filmati quasi sempre di schiena mentre decidono di lasciarsi, è una dichiarazione d’intenti. Godard ci nega l’accesso all’emotività tradizionale (il primo piano, lo sguardo), costringendoci a concentrarci sulla banalità quasi surreale delle loro parole. Il sonoro è diretto, grezzo, pieno di rumori d’ambiente, anticipando di decenni il lavoro di registi come Robert Altman. L’approccio documentaristico con cui viene descritta la "giornata tipo" della prostituta – tariffe, regole, rischi – ha la freddezza di un manuale di istruzioni, che rende il tutto ancora più agghiacciante. Eppure, in mezzo a questa rigorosa dissezione intellettuale, esplodono momenti di pura, inaspettata grazia. La scena in cui Nana, in una sala da biliardo, esegue un ballo spontaneo e gioioso al ritmo di un juke-box è una boccata d’aria fresca, un lampo di libertà che ricorda la vitalità anarcoide di Bande à part. È Godard il cinefilo, l’amante di Hollywood, che per un attimo prende il sopravvento su Godard il filosofo marxista. Questo scarto stilistico non è una debolezza, ma la cifra stessa del suo genio: la capacità di tenere insieme la più alta speculazione intellettuale e il più puro piacere cinetico.

Il parallelismo più calzante, forse, non è con altri film, ma con l'opera di Robert Bresson, in particolare con il suo concetto di "modello" in opposizione all' "attore". Come in Pickpocket o Diario di un curato di campagna, anche qui c'è un'attenzione quasi feticistica per i gesti, una spoliazione dell'eccesso psicologico, una ricerca di verità attraverso l'artificio e la superficie. Nana non è tanto una persona quanto una funzione all'interno di un sistema (economico, sociale, cinematografico). La sua morte finale, brutale, goffa e quasi casuale, girata con la stessa distanza con cui si filma un incidente stradale, è la logica, terribile conclusione di questo processo. Non c'è dramma, non c'è catarsi, solo un corpo che cade a terra, un oggetto non più utile. Il protettore dice: "L’ho ripagata", e il film finisce. È la riduzione della vita umana a una transazione economica, la chiosa finale e spietata del saggio di Godard.

Questa è la mia vita è un’opera spartiacque. È il punto in cui la Nouvelle Vague smette di essere solo una rivoluzione stilistica e diventa una forma di pensiero. È un film che, come i cubisti scomponevano l'oggetto per mostrarlo da più angolazioni contemporaneamente, scompone l’anima di una donna e il linguaggio del cinema per rivelarne la complessa, dolorosa architettura. È un film che si offre e si nega, che ci invita a guardare e poi ci accusa per il nostro voyeurismo. È il ritratto di una donna che voleva "vivere la sua vita" ma è stata intrappolata in un film, prigioniera dello sguardo di un regista-demiurgo e di noi spettatori, suoi complici silenziosi. Un capolavoro gelido, struggente e assolutamente necessario.

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