Riso amaro
1949
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Regista
Un’umidità che si appiccica ai vestiti e all’anima. Un orizzonte piatto, infinito, spezzato solo da schiene curve di donne chine a piantare il riso. Un coro di voci femminili che intona canti di lavoro e di protesta, un suono ancestrale che sembra emergere dalla terra stessa. Su questo scenario primordiale, quasi da Genesi agricola, Giuseppe De Santis innesta un ordigno a orologeria di genere, una collisione frontale tra la poetica del Neorealismo e le pulsioni più oscure del noir americano. "Riso amaro" non è semplicemente un film; è un campo di battaglia culturale, un ibrido magnifico e febbrile che cattura l’Italia del 1949 nel suo momento di massima contraddizione: un paese con le radici affondate nel fango della tradizione contadina e lo sguardo famelico rivolto al miraggio luccicante del Sogno Americano.
Se il Neorealismo di Rossellini e De Sica era un atto di testimonianza quasi ascetico, un pedinamento zavattiniano della realtà con la macchina da presa come specchio disadorno, quello di De Santis è un’eresia spettacolare. Il regista, d'altronde marxista convinto, parte da un'inchiesta quasi documentaristica sulla condizione delle mondine, le lavoratrici stagionali delle risaie del Vercellese. La coralità della narrazione iniziale, il senso di solidarietà di classe, la lotta contro i “crumiri” e la rivendicazione salariale sono puro DNA neorealista. Potrebbe essere un romanzo di Zola, con la sua attenzione quasi scientifica alle dinamiche sociali di un microcosmo operaio, o un racconto corale alla Verga, dove la comunità è il vero, grande protagonista. La risaia è un universo-mondo, un teatro acquatico dove si consumano drammi personali e collettivi sotto il sole implacabile.
Ma in questo microcosmo quasi pre-industriale, irrompono due agenti del caos, due figure che sembrano paracadutate da un hardboiled di James M. Cain: Walter (un Vittorio Gassman mefistofelico e magnetico) e la sua complice Francesca (una dolente Doris Dowling, attrice americana che porta con sé l'aura autentica del genere). Fuggono con una collana rubata, un MacGuffin che innesca la spirale di avidità, tradimento e morte. L'arrivo di Walter è l'iniezione del virus della modernità capitalista nel corpo sano ma esausto della comunità. Egli non porta solo il crimine, ma un intero immaginario: le riviste patinate, le sigarette americane, il boogie-woogie, la promessa di una ricchezza facile che scardina la logica del sudore e della fatica. La sua presenza trasforma il dramma sociale in un thriller melò, spingendo il film in un territorio inesplorato, un "Neorealismo noir" che scandalizzò i puristi ma che, col senno di poi, si rivela profetico nel leggere le tensioni sotterranee del paese.
E poi, al centro di questo ciclone, c'è lei. Silvana. Interpretata da una Silvana Mangano diciassettenne, la cui apparizione sullo schermo è uno di quegli eventi sismici che ridefiniscono un’intera cinematografia. Con i suoi calzoncini corti, le calze scure arrotolate sulle cosce e una fisicità prorompente e sfrontata, Mangano non è semplicemente un personaggio, è un archetipo, un’esplosione di energia dionisiaca. È la carnalità della terra che si fa donna, ma è anche la vittima più ingenua e disperata del fascino di Walter. Incarna la contraddizione vivente dell'Italia del dopoguerra: è la mondina che canta i canti della tradizione ma che sogna di ballare come Rita Hayworth, mastica chewing gum americano e legge fotoromanzi. La sua celeberrima gara di ballo, un boogie-woogie sfrenato che sfida i canti popolari delle compagne, non è una semplice scena di danza; è un manifesto. È lo scontro tra due culture, tra il ritmo sincopato e individualista dell'America e la melodia corale e comunitaria della tradizione italiana. È il passato e il futuro che si sfidano a duello su una pista da ballo improvvisata.
La genialità di De Santis sta nel non risolvere mai questa tensione, ma nell’alimentarla fino alle sue estreme conseguenze. La macchina da presa indulge sui corpi delle mondine al lavoro con un realismo quasi brutale, ma allo stesso tempo li erotizza con un'innegabile sensibilità "pulp", creando un cortocircuito visivo potentissimo. Lo sguardo del regista è duplice: da un lato, l'intellettuale comunista che vuole denunciare lo sfruttamento e celebrare la lotta di classe; dall'altro, il cineasta innamorato delle forme del cinema popolare, che sa come costruire la suspense, come orchestrare un climax drammatico e come sfruttare il potere divistico dei suoi attori. "Riso amaro" è un film che lotta con se stesso, e proprio in questa lotta trova la sua grandezza. È come se John Steinbeck avesse scritto un romanzo a quattro mani con Dashiell Hammett, ambientandolo nelle paludi del Po.
I parallelismi si sprecano. La risaia come entità quasi lovecraftiana, un paesaggio primordiale che inghiotte e determina i destini, ricorda il naturalismo più estremo, ma la sua rappresentazione, con le masse di figure in movimento, ha la monumentalità quasi pittorica di un murale di Diego Rivera. Il personaggio di Walter è un Iago provinciale, un serpente che sussurra promesse di potere e ricchezza nell'orecchio di un'Eva contadina. E il finale, tragico e catartico, ha la potenza di una tragedia greca. Il gesto finale delle mondine, che versano il riso sul corpo di Silvana, non è solo un rito funebre; è un atto di purificazione, un tentativo disperato di riassorbire l'individuo traditore nella matrice della collettività, di lavare via il peccato della modernità con i frutti della terra. Il riso, da amaro per la fatica, diventa amarissimo per il tradimento e la morte.
"Riso amaro" è un capolavoro mutante, un'opera impura che ha la forza di un documento storico e l'impatto di un B-movie ad alto voltaggio. Ha mostrato al mondo un'Italia diversa da quella pietistica e neorealista che si era abituati a vedere, un'Italia sensuale, violenta, piena di desideri e di paure inconfessabili. Ha creato un'icona immortale e ha dimostrato che il cinema d'autore e quello di genere non sono necessariamente due rette parallele, ma possono convergere in un punto di incandescenza, generando qualcosa di completamente nuovo. È un film che odora di terra bagnata, sudore e polvere da sparo, e che ancora oggi pulsa di una vitalità selvaggia e irrisolta. Un centauro cinematografico, metà documento sociale, metà bestia noir, che corre sfrenato attraverso la storia del cinema, lasciando dietro di sé un'impronta indelebile.
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