Roma Città Aperta
1945
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Regista
Un’opera cruciale per la genesi del nostro cinema, che ha ispirato intere generazioni di registi. Roma Città Aperta non fu soltanto un catalizzatore, ma un vero e proprio manifesto, una scheggia impazzita di verità scagliata contro il muro di un'epoca. La sua essenza risiede nella capacità di trasfigurare la cronaca più cruda in un’epica quotidiana, forgiando un modello che avrebbe plasmato non solo il neorealismo italiano, ma anche le future ondate del cinema mondiale. Penso alla Nouvelle Vague francese, che pur con le sue dichiarate istanze anti-tradizionaliste e il suo desiderio di “tabula rasa” cinematografica, non avrebbe mai potuto prescindere dalla lezione rosselliniana sull'autenticità del gesto e la libertà della macchina da presa, o al Free Cinema britannico, intento a scavare nelle pieghe della realtà sociale con la medesima urgenza morale e il disprezzo per le sovrastrutture di studio.
Rossellini progetta e mette in scena un documento che testimoniasse gli effetti della Guerra in Italia. Non si trattava di un semplice resoconto degli orrori bellici, bensì di un’indagine quasi etnografica sull'anima di un popolo che, pur lacerato, non aveva smarrito la propria dignità. Lo fa con un’opera di rottura che rinuncia ad ogni tipo di sentimentalismo mainstream per andare ad intercettare con la sua cinepresa nient’altro che la verità. Rossellini, con la lucidità di un cronista e la sensibilità di un artista, smantella le convenzioni stilistiche del cinema pre-bellico, quel mondo edulcorato e retorico dei “Telefoni Bianchi” che aveva anestetizzato gli schermi italiani per anni. Il suo sguardo è privo di veli, talmente essenziale da risultare quasi brutalista nella sua ricerca ostinata di un “vero” che non ammetteva infingimenti, né concessioni a facili drammatizzazioni hollywoodiane. È una verità non spettacolarizzata, ma vissuta sulla pelle, colta nelle espressioni sfinite eppure resilienti dei volti, nei vicoli scrostati, nel fragore sordo delle bombe che squarciano l'aria e nell'eco silenzioso della fame e della paura.
Inizia, a torto o a ragione, con questa opera l’uso cosciente del termine “neorealismo”, anche se germinalmente lo si tende a far risalire a due anni prima, al Visconti di “Ossessione”. Dibattiti da intellettuali. Se è vero che Ossessione di Visconti, con la sua sferzante incursione nel sordido e nel passionale, aveva già intaccato le fondamenta del formalismo cinematografico di regime, è con Roma Città Aperta che la definizione di “neorealismo” si cristallizza, assumendo i contorni di un movimento consapevole e dirompente. Al di là delle dispute accademiche su chi detenga la primogenitura concettuale, ciò che conta è la deflagrazione di un'estetica che si fa etica, una scelta di campo che eleva la povertà dei mezzi a virtù espressiva. La penuria di fondi, la distruzione degli studi di Cinecittà, la necessità di filmare in strada con la luce naturale e attori spesso non professionisti non furono limiti, ma catalizzatori di una nuova grammatica visiva. Il cinema italiano si liberava così delle sue catene dorate, abbracciando una dimensione quasi documentaristica, un “cinema della realtà” che dialogava direttamente con la coscienza collettiva di un'Europa dilaniata e in cerca di risposte.
A noi preme sottolineare la nascita di un nuovo modo di fare cinema, un rivoluzionario linguaggio che partendo dall’Italia si fa strada nel mondo e conquista le corti intellettuali europee prima e americane poi. Un linguaggio che fondasse sulla restituzione del Vero, mondato da qualsiasi orpello scenico o di maniera, il suo retaggio semantico. La sua forza risiedeva nella cruda e disadorna restituzione della realtà, spogliata di ogni artificio scenografico e di ogni concessione al decoro posticcio. Ogni inquadratura, ogni gesto, ogni battuta – spesso frutto di un'improvvisazione calibrata e di una riscrittura costante sul set, dati i mezzi di fortuna – contribuiva a definire un’esperienza sensoriale che evocava l'autenticità del vissuto. Non c'era spazio per le scenografie ricostruite, per le luci patinate, per le finzioni dello studio; la Roma ferita, con le sue macerie e le sue barricate, diventava il palcoscenico naturale di un dramma umano che si consumava sotto gli occhi degli spettatori, non più semplici fruitori ma quasi testimoni oculari di una storia che apparteneva a tutti.
La storia del film: nella Roma occupata di fine guerra tre personaggi vanno incontro al loro drammatico destino: una donna del popolo, un sacerdote amato dalla gente e un ingegnere comunista. Al centro di questa odissea morale, tre figure archetipiche si ergono a simbolo della Resistenza, non solo militare ma anche spirituale: la popolana Pina, donna energica e sfrontata, incarnazione della resilienza quotidiana e della dignità popolare; Don Pietro Pellegrini, il sacerdote che si fa ponte tra la fede e l'impegno civile, emblema di una Chiesa radicata nella vita della gente e nella lotta per la libertà; e Manfredi, l'ingegnere comunista, intellettuale e organizzatore della resistenza, rappresentante della lotta politica e della resistenza ideologica. Rossellini non indulge nella facile retorica dell'eroismo monolitico, ma esplora le sfumature di queste esistenze, i compromessi, le paure, la forza insita nella solidarietà che si cementa nella tragedia. Su tutto cala impietosa l’ombra dell’invasore tedesco, quasi a fungere da collante narrativo per ogni segmento dell’opera. L'occupazione nazista, più che un semplice sfondo, diventa un personaggio in sé, un'entità opprimente che permea ogni aspetto dell'esistenza romana, costringendo i protagonisti a scelte estreme e rivelando la brutalità disumana di un regime che, per la prima volta, veniva messo a nudo nella sua perversione metodica e glaciale, lontana dalle rappresentazioni propagandistiche di comodo.
Menzione di merito per Aldo Fabrizi e Anna Magnani, due attori che hanno contribuito alla fortuna di quest’opera, due grandiosi talenti espressi dal fermento intellettuale di una nazione che da subito volle risollevarsi e ripartire. È impossibile non celebrare la titanica performance di Anna Magnani, la cui Pina è molto più di un personaggio: è un grido di dolore e di sfida che ancora risuona nella memoria collettiva. La sua corsa disperata dietro al camion che porta via il fidanzato, il suo urlo lacerante che squarcia il silenzio della pellicola, non sono solo espressione di un talento smisurato, ma la catarsi di un'intera nazione che trova voce nel corpo e nell'anima di un'attrice irripetibile. Si narra che Magnani, inizialmente restia a prendere parte al progetto, fu convinta dalla potenza della sceneggiatura e dalla visione di Rossellini, portando sul set non solo la sua arte, ma la sua anima più autentica e viscerale. Accanto a lei, la statuaria dignità di Aldo Fabrizi nel ruolo di Don Pietro, un uomo di fede che si sporca le mani nella miseria umana senza perdere la propria purezza morale, offre un contrappunto di sobria e commovente grandezza. Il suo volto, di solito votato alla comicità più schietta e alla macchietta popolare, qui si fa veicolo di una sofferenza muta e di una resistenza stoica, incarnando la figura del martire involontario con una verosimiglianza agghiacciante. Questi due giganti del nostro cinema, insieme agli attori non professionisti e ai bambini, che con i loro sguardi innocenti eppure consapevoli chiudono il film in un'immagine di speranza dolente e di futuro incerto, hanno prestato i loro volti e i loro corpi a una narrazione che trascende il singolo evento per farsi parabola universale sulla condizione umana sotto la tirannia, sull'eterno conflitto tra bene e male.
Un film che rappresenta una presa di coscienza del Cinema Italiano: da mero intrattenimento a vera e propria fucina d’Arte. Roma Città Aperta non è stato solo un film; è stato un evento storico, un punto di non ritorno nella storia del settimo potere. Ha dimostrato che il cinema poteva e doveva essere più di un semplice svago, più di un’evasione dalla quotidianità. Poteva essere, e Rossellini lo provò in modo inequivocabile, una lente d’ingrandimento sul cuore pulsante della realtà, uno strumento di testimonianza e di coscienza civile, un laboratorio in cui l'arte e la vita si fondevano in un'unica, potente, indimenticabile narrazione. La sua impronta è eterna, incisa a fuoco non solo nella storia del cinema, ma nella memoria stessa di un Paese che, attraverso le sue immagini, ha saputo raccontare al mondo la propria rinascita, non senza cicatrici, ma con una forza vitale inaudita. Un capolavoro che continua a interrogarci sul prezzo della libertà e sul coraggio di lottare per essa, mantenendo intatta la sua potenza emotiva e la sua imprescindibile valenza etica e artistica.
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