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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Shaft il detective

1971

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Il wah-wah della chitarra di Isaac Hayes non è una semplice colonna sonora; è il battito cardiaco di John Shaft, il suo respiro sincopato, la dichiarazione d’intenti che precede l’uomo stesso. Prima ancora di vederlo emergere dalla metropolitana di Times Square, avvolto in un trench di pelle che sembra una seconda pelle forgiata nelle fucine urbane, noi sentiamo Shaft. Sentiamo la sua arroganza, la sua sicurezza, la sua inarrestabile spinta cinetica. Quella musica, un torrente funk soul che si riversa nelle strade di una New York del 1971 livida e febbricitante, non accompagna l'azione: la genera. È il manifesto sonoro di un nuovo tipo di eroe, un monolite nero piantato con violenza nel cuore di un paesaggio cinematografico fino ad allora prevalentemente bianco.

Gordon Parks, regista e prima ancora fotografo per la rivista Life, non dirige un film, ma documenta la nascita di un mito. La sua macchina da presa non estetizza la sporcizia di New York, la cattura con un realismo quasi tattile. Sentiamo l'umidità dell'asfalto, l'odore di cibo fritto e gas di scarico, il freddo che si insinua nelle ossa. Questa non è la Los Angeles sognante e corrotta di Raymond Chandler, dove il marciume si nasconde dietro facciate assolate e palme inerti. Questa è una giungla di cemento e mattoni, un labirinto verticale dove la sopravvivenza è una forma d'arte. E John Shaft ne è il maestro indiscusso.

A un'analisi superficiale, la trama è di una semplicità disarmante, quasi un pretesto hard-boiled: il boss di Harlem, Bumpy Jonas, assolda il detective privato John Shaft per ritrovare la figlia rapita. Un canovaccio che Philip Marlowe o Sam Spade avrebbero dipanato tra un bicchiere di segale e una femme fatale. Ma Shaft non è un cavaliere disilluso alla ricerca di un codice morale in un mondo che l'ha perso. Shaft è il codice. Non è un romantico tormentato dai fantasmi del passato; è un pragmatico assoluto, ancorato a un presente brutale. La sua moralità non è un sistema di valori astratti, ma una geografia di alleanze e territori. Naviga le acque limacciose tra la polizia bianca, incarnata dal tenente Vic Androzzi (un superbo Charles Cioffi), e la malavita nera di Bumpy, non come un mediatore, ma come uno stato sovrano, un'entità indipendente che concede udienze e stringe patti temporanei. È un uomo liminale, un Caronte che traghetta informazioni e violenza tra i diversi gironi dell'inferno metropolitano, esigendo un pedaggio da tutti.

Richard Roundtree conferisce a Shaft una fisicità che è al contempo elegante e letale. Il suo modo di camminare, la sua postura, il modo in cui il suo sguardo taglia l'aria prima ancora che le sue parole colpiscano, tutto contribuisce a definire un archetipo. La sua iconografia – il trench di pelle, i dolcevita, i baffi perfettamente curati – non è semplice costume, è un'armatura. Un'uniforme che lo distingue tanto dai colletti bianchi della legge quanto dai completi sgargianti dei gangster. È un'affermazione di individualità radicale in un mondo che cerca costantemente di etichettarlo, di incasellarlo. La celebre battuta del tema musicale, "He's a complicated man / But no one understands him but his woman", coglie solo una parte della verità. Shaft non è tanto complicato quanto autosufficiente, un sistema chiuso la cui logica interna è inaccessibile agli altri. E la sua relazione con le donne, più che un legame, è un'altra estensione del suo dominio sull'ambiente, un'affermazione di potere virile quasi primordiale che risuona con la crudezza dell'intera operazione.

Il film di Parks si colloca in un punto di singolarità culturale. È l'opera seminale che inaugura, suo malgrado, il filone della Blaxploitation, ma ne è al contempo la più pura e meno caricaturale espressione. Se molti dei suoi successori scivoleranno nella parodia, nell'esagerazione grottesca del "pimp style" e della violenza fumettistica, Shaft mantiene una gravitas, un'aderenza alla realtà che lo eleva. È un film nato dalla rabbia e dall'esigenza di rappresentazione, un atto di creazione quasi mitopoietico. Per decenni, il cinema americano aveva relegato i personaggi neri a ruoli di contorno, a stereotipi benevoli o minacciosi. Shaft distrugge questo paradigma con la forza di un ariete. Non chiede il permesso di esistere sullo schermo; occupa il centro della scena con una naturalezza che è, di per sé, un atto rivoluzionario. Non è un "eroe nero", è un eroe che si dà il caso sia nero, e la cui identità razziale informa le sue azioni e le sue interazioni senza mai definirlo completamente o limitarlo a una funzione simbolica.

In questo senso, Shaft è più vicino a certo cinema europeo coevo, come il poliziottesco italiano o il polar francese di Jean-Pierre Melville, che non a molto cinema hollywoodiano. Come l'Alain Delon de Le Samouraï, Shaft è un professionista solitario, un predatore urbano la cui esistenza è definita da un codice personale e da un'efficienza spietata. Ma a differenza del gelido angelo della morte di Melville, Shaft è caldo, pulsante, carnale. È un uomo di rabbia, desiderio e ironia fulminante. La sua violenza non è un rituale estetizzato, ma un'eruzione necessaria, uno strumento di lavoro. La sequenza finale, con Shaft e i suoi alleati che si calano dall'esterno di un palazzo per un assalto in piena regola, non ha la grazia di un balletto di Hong Kong; è goffa, disperata e brutale. È reale. È il lavoro sporco che deve essere fatto.

Analizzare Shaft oggi significa compiere un'operazione di archeologia culturale. Significa comprendere come un film possa essere, simultaneamente, un prodotto di consumo reazionario (sfruttando le tensioni razziali per un profitto) e un'opera d'avanguardia profondamente liberatoria. È un paradosso vivente. La sua politica non è nei dialoghi o nelle dichiarazioni programmatiche, ma nell'esistenza stessa del suo protagonista. La sua importanza non risiede tanto nella storia che racconta, quanto nella storia che permette di raccontare in seguito. È il Big Bang da cui si è espanso un intero universo di cinema popolare, nel bene e nel male. È un testo fondamentale, non perché sia perfetto – la sua narrazione è a tratti sbrigativa, la sua politica sessuale invecchiata in modo problematico – ma perché è necessario. Come certi romanzi di frontiera che definiscono l'identità di una nazione, Shaft ha definito l'identità di un nuovo eroe cinematografico, un eroe che poteva finalmente guardare l'America dritta negli occhi e dire, senza scuse: "Who's the cat that won't cop out / When there's danger all about? Shaft. Right on."

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