Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Rang-e khoda (Il Colore del Paradiso)

1999

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Il cinema, nella sua essenza più pura, è l'arte dello sguardo. Ci insegna a vedere, a decifrare il visibile, a trovare significato nella luce proiettata su uno schermo. Ma cosa accade quando un film sceglie di abdicare a questa sua primordiale funzione per esplorare il mondo attraverso la sua negazione? Majid Majidi, con Rang-e khoda (Il colore di Dio, ma internazionalmente noto come Il colore del Paradiso), compie un'operazione tanto radicale quanto sublime: ci costringe a chiudere i nostri occhi cinematografici per imparare a percepire con sensi che il grande schermo solitamente relega in secondo piano. Ci invita a toccare, ad ascoltare, a sentire la presenza del divino in un universo precluso alla vista.

Il protagonista, Mohammad, un bambino cieco di otto anni, è la nostra guida in questo viaggio epistemologico. La sua cecità non è una mancanza, ma una lente d'ingrandimento su un'altra realtà. Mentre i suoi compagni di istituto a Teheran leggono il Braille con le dita, Majidi ci mostra che Mohammad legge il mondo intero nello stesso modo. La sua mano che sfiora la corteccia di un albero, che segue la traiettoria di una formica, che sente il grano frusciare nel vento, non è un semplice atto di orientamento; è un atto di lettura cosmica. Ogni texture, ogni vibrazione, è una lettera di un alfabeto sacro che compone il nome di Dio. In questo, Mohammad si eleva a figura quasi trascendentale, un piccolo "santo folle" che, come il Principe Myškin di Dostoevskij, possiede una purezza di percezione che smaschera l'ottusità spirituale del mondo "vedente" che lo circonda.

A questo mondo vedente, ma cieco nell'anima, appartiene suo padre, Hashem. Vedovo, povero, schiacciato dalla fatica e dalla superstizione, egli vive la condizione del figlio non come una sfida, ma come una vergogna, una maledizione divina che ostacola il suo progetto di risposarsi e rifarsi una vita. Se Mohammad incarna una fede immanente, panteistica, una gioia sensoriale nel creato che è prova stessa del Creatore, suo padre rappresenta l'esatto opposto: una fede transazionale, punitiva, che si manifesta come un fardello. Il suo Dio è un'entità lontana e giudicante, la cui esistenza si misura solo nel peso della sventura. La dialettica tra i due è il cuore pulsante del film: una straziante teodicea familiare in cui la ricerca di Dio del figlio si scontra con il desiderio del padre di liberarsi di lui, visto come un ostacolo terreno. Hashem non è un villain da melodramma, ma una figura quasi shakespeariana nella sua tragica miseria, un uomo che, nel tentativo di assicurarsi un paradiso terrestre (una nuova moglie, una nuova casa), ripudia il frammento di paradiso celeste che gli è stato affidato.

Majidi orchestra questa sinfonia di percezioni con una maestria che evoca il rigore spirituale di Robert Bresson e la sensibilità naturalistica di Terrence Malick. Come Bresson, Majidi si fida del potere evocativo del dettaglio: le mani sono le vere protagoniste visive, strumenti di conoscenza e di grazia. Il suono, poi, cessa di essere un semplice accompagnamento per diventare il tessuto stesso della realtà di Mohammad. Il cinguettio di un uccellino non è sottofondo, ma un evento drammatico, una comunicazione diretta con il mistero. Il picchio che bussa sul tronco è un metronomo che scandisce il ritmo della vita. La sound-design del film è un'opera d'arte a sé stante, un'immersione totale che ci fa comprendere come, per Mohammad, l'universo non sia uno spettacolo da guardare, ma una partitura da ascoltare.

Questo approccio sensoriale si sposa con una fotografia lussureggiante, quasi pittorica, di Mohammad-Reza Davoudnejad. Le campagne iraniane del nord, con le loro foreste verdissime, i campi dorati e i fiumi impetuosi, diventano il vero tempio in cui si celebra il rito della percezione. C'è un'eco del Trascendentalismo americano di Emerson e Thoreau: la Natura come manifestazione diretta del divino, un libro sacro le cui pagine sono le foglie e i cui versetti sono i suoni degli animali. Majidi, però, non cade mai nella trappola di un'estetica puramente contemplativa. La bellezza quasi Edenica del paesaggio è costantemente contrappuntata dalla durezza della vita rurale, dalla povertà tangibile, dalla lotta per la sopravvivenza che anima la disperazione del padre. Questo equilibrio tra il sublime e il terreno, tra la parabola spirituale e il dramma neorealista, è una delle cifre stilistiche più potenti del cinema iraniano della "Nuova Onda" di cui Majidi è stato uno dei massimi esponenti, insieme ad Abbas Kiarostami.

Se Kiarostami, tuttavia, usava il minimalismo e l'ambiguità meta-testuale per interrogare la natura stessa della rappresentazione, Majidi sceglie una via più lirica ed emotivamente diretta. Come in altri suoi capolavori, I ragazzi del cielo su tutti, il mondo dell'infanzia diventa il prisma attraverso cui esplorare le grandi questioni universali – la fede, la colpa, l'amore, la mortalità – in un modo che è al contempo semplice e profondissimo. L'uso di attori non professionisti, in particolare il giovane Mohsen Ramezani (realmente non vedente), conferisce al film un'autenticità quasi documentaristica che rende il suo messaggio spirituale ancora più potente e radicato nella realtà. È un cinema che, operando sotto le rigide restrizioni della Repubblica Islamica, ha saputo trovare un linguaggio universale, trasfigurando le limitazioni in una poetica unica, capace di parlare al cuore senza mai rinunciare alla complessità del pensiero.

Il climax del film è una sequenza di una potenza devastante, un'ordalia biblica in cui natura e destino sembrano convergere. Il ponte di legno che crolla, il fiume in piena che trascina via Mohammad, la disperata e tardiva corsa del padre per salvarlo: tutto assume la portata di un giudizio finale. Ma Majidi rifugge da ogni facile consolazione o condanna. Il padre, dopo aver recuperato il corpo apparentemente senza vita del figlio, lo stringe a sé sulla riva del mare, piangendo la sua stessa cecità spirituale in un atto di catarsi totale. E qui, il miracolo. Un raggio di sole squarcia le nubi e illumina la mano del bambino, che si colora di una luce dorata, quasi viva. Le dita si muovono debolmente. È un segno divino? La prova tangibile di quel Dio che Mohammad ha sempre percepito? O è semplicemente la luce del sole, un fenomeno naturale che un padre disperato interpreta come un segno di grazia?

Il film non offre una risposta, perché la sua grandezza risiede proprio in questa sospensione. "Il colore di Dio" non è una tonalità specifica, non è il verde del Paradiso islamico o l'oro della luce divina. È la capacità stessa di percepire la luce, sia essa fisica o metaforica. Nell'inquadratura finale, il padre ha forse, per la prima volta, iniziato a vedere con gli occhi del figlio. Ha compreso che la fede non è un contratto da stipulare con il cielo, ma un atto di percezione, un'apertura sensoriale al mistero che ci circonda. Rang-e khoda è più di un film; è una parabola sensoriale, un poema visivo e sonoro che ci ricorda come l'arte più alta non sia quella che ci mostra cose nuove, ma quella che ci insegna un nuovo modo di vedere – o, in questo caso, di sentire – le cose di sempre. Un capolavoro che ci spoglia delle nostre certezze visive per rivestirci di una più profonda e commovente comprensione del mondo.

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