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Il Fascino Discreto della Borghesia

1972

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Un Luis Buñuel surreale, sardonico e irriverente mette impietosamente alla gogna sei piccolo-borghesi che per tutta la durata del film tentano invano di cenare insieme. Un’ossessione gastronomica che si trasforma in una perenne, frustrante e spesso esilarante caccia al piacere mondano, quasi una versione secolarizzata della ricerca del Graal per anime corrotte e frivole. Questa reiterata, fallimentare ritualità culinaria non è solo un espediente comico, ma il cuore pulsante di una critica feroce.

Ogni volta saranno interrotti dalle più grottesche apparizioni e dai più bizzarri impedimenti. Non si tratta di mere interruzioni, ma di veri e propri squarci nella sottile patina della realtà, o forse, più esattamente, negli strati della loro stessa repressione psicologica e ipocrisia sociale. Dalle visioni oniriche che si fondono con la veglia, a incontri con briganti, poliziotti, soldati e persino defunti che riemergono dal passato, la narrazione scivola senza soluzione di continuità tra il plausibile e l'allucinatorio. Questo limbo, in cui il sogno irrompe nella veglia e la logica si dissolve senza clamore, è il tratto distintivo di un regista che aveva fatto del surrealismo la sua grammatica esistenziale fin dai tempi di Un Chien Andalou, ma che qui lo applica con una maturità e una precisione chirurgica che lo rendono ancora più destabilizzante.

La cena diviene presto metafora dell’indolenza di una classe che in quel periodo assumeva il profilo di un nemico culturale per buona parte dell’intellighenzia europea. Ma non è solo indolenza, bensì una vera e propria atrofia morale, una perversa incapacità di affrontare la realtà che si manifesta nella loro cieca adesione a convenzioni vuote. Nel clima post-Sessantotto, in un'Europa scossa da movimenti studenteschi, proteste operaie e il dissolversi di vecchi ordini, la borghesia dipinta da Buñuel – con le sue chiacchiere insipide, le sue ipocrisie sessuali e i suoi crimini occulti – appare come un fossile vivente, un anacronismo che si aggrappa disperatamente a un'etichetta sociale svuotata di ogni significato. Il film si inserisce così in un filone di critica sociale acuta e disincantata, che aveva visto precursori illustri nel cinema di Pasolini e nell'esistenzialismo sferzante di Jean-Paul Sartre.

Dunque per quelle persone cenare diviene un’impresa oltre i limiti umani, un impedimento assurdo e invalicabile, in un crescendo narrativo ancora oggi ineguagliato. L'accumulo di questi "mancati appuntamenti" con il cibo e, per estensione, con la soddisfazione e la realtà, genera una tensione che non si risolve mai, lasciando lo spettatore in un costante stato di sospensione, a metà tra il riso amaro e l'inquietudine. Questa tecnica di frustrazione seriale del desiderio primario, quasi beckettiana nel suo ripetersi, è una lezione magistrale di ritmo e suspense comica, che trascende il puro umorismo per sfociare in una riflessione più profonda sulla natura effimera e ingannevole delle aspirazioni umane. Persino prendere un Tè diventa un’impresa titanica, un simbolo della loro condanna a un eterno limbo di insoddisfazione, dove ogni atto semplice si carica di un peso metafisico e ogni desiderio resta incompiuto.

Un film che strizza un occhio al dadaismo e un occhio all’impegno sociale. L'influenza dadaista si manifesta non solo nell'abbraccio dell'irrazionale e nella deliberata rottura delle aspettative narrative, ma anche nella sua intrinseca natura anti-borghese e anti-istituzionale. Come i dadaisti che rifiutavano l'arte "alta" e la logica che aveva condotto alla guerra, Buñuel qui smonta le impalcature della rispettabilità borghese attraverso il ridicolo e il paradosso, esponendo la sua vacuità. La sua non è una pittura di denuncia didascalica, ma una corrosione interna, un acido che dissolve le fondamenta della norma. L'impegno sociale, dunque, si cela non nella retorica, ma nella decostruzione dei meccanismi di potere e di mistificazione.

Evidente l’influenza che il teatro di Ionesco, di cui se ne rinviene qualche elemento anche nel profilo di alcuni protagonisti, ha esercitato su quest’opera. I personaggi del Fascino Discreto, con la loro incapacità di comunicare realmente, la loro aderenza ostinata a frasi fatte e la loro superficialità, ricordano da vicino i protagonisti de La Cantatrice Calva o di Rinoceronte, in cui l'assurdità del linguaggio e la progressiva disumanizzazione diventano metafora di una società senza radici. In Buñuel, questa teatralità dell'assurdo è sublimata nel linguaggio cinematografico, dove il montaggio e la messa in scena amplificano la sensazione di una realtà fuori posto.

Il senso dell’assurdo non attanaglia la narrazione tanto da renderla incomprensibile, al contrario la narrazione è fluida e assai comprensibile. Non c’è una voluta opacità ermetica, bensì una limpida, quasi didascalica presentazione dell'irrazionale come parte integrante del reale. La violenza e la bizzarria emergono con una naturalezza disarmante, quasi fossero l'esito logico di una profonda e sottostante follia collettiva. Proprio in questa peculiarità sta lo scarto semantico con cui Buñuel gioca: l’assurdo si riverbera dalla routine, dalla banalità del quotidiano. È l'insistenza sul decoro, sulla buona educazione, sulle chiacchiere salottiere che rende l'irruzione del soldato armato o del terrorista ancora più stridente e surreale. L'assurdità non è un'intrusione aliena, ma una rivelazione dell'alienazione intrinseca che permea l'esistenza dei personaggi.

Ed è ancora più sconcertante nella sua prorompente dicotomia semantica. Il linguaggio del Fascino Discreto in sostanza è un linguaggio che conosciamo tutti, quello della cortesia formale, delle convenzioni sociali, della conversazione da salotto. Ma questo linguaggio, così familiare e rassicurante in apparenza, porta in sè un micidiale innesco sempre pronto a far collassare il protocollo della comunicazione, il senso ultimo della correlazione dialogica tra chi guarda e chi è guardato. Ogni dialogo è una potenziale mina, ogni espressione di buona volontà un preludio al disastro. Le parole perdono la loro funzione comunicativa per diventare meri rumori di fondo, maschere sonore dietro cui si nasconde il vuoto. Le conversazioni deragliano in aneddoti improbabili, sogni confusi o confessioni scabrose, spezzando la linearità della narrazione e mettendo in discussione la stessa possibilità di un significato condiviso. Il film ci interroga sulla validità di ogni forma di interazione umana quando le sue fondamenta sono basate sull'apparenza e sulla negazione della realtà.

In definitiva la si può senza dubbio definire un’opera favolosa, nel senso etimologicamente più pertinente che possiede il termine: non solo "fiabesca" per la sua dimensione onirica e allegorica, ma anche una vera e propria "favola morale" moderna, un apologo crudele e magnifico sulla decadenza di una classe e, per estensione, sulla fragilità delle costruzioni sociali. Il Fascino Discreto della Borghesia rimane un capolavoro insuperabile, un distillato di genio che, a distanza di decenni, continua a pungolare la coscienza dello spettatore con la sua satira acida e il suo umorismo nero, rivelando come l'assurdo non sia un'eccezione, ma la regola non scritta di un mondo che si ostina a non voler vedere la propria stessa, inevitabile, putrefazione.

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