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Il Gattopardo

1963

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Il Principe di Salina, Fabrizio, tenta disperatamente e anacronisticamente di conservare i propri privilegi nobiliari durante i tumulti siciliani del 1860 e la discesa di Garibaldi nel regno di Sicilia. In questo crocevia storico, il Risorgimento è colto non come epopea eroica, ma come un'ineluttabile, quasi brutale, spinta al cambiamento che investe un mondo radicato nella tradizione e nei suoi riti secolari. Il Principe, consapevole della propria estinzione come specie, incarna la malinconia di un'epoca che si congeda con dignità, pur comprendendo l'inanità di ogni resistenza.

Potrà contare sull’appoggio del nipote Tancredi, progressista e attivo politicamente con le camicie rosse. La sua figura è l'epitome della nuova aristocrazia del potere, non più del sangue, ma dell'adattabilità pragmatica. È a lui che Visconti affida la celebre e cinica massima, vero fulcro del "gattopardismo": "Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi." Una lucida preveggenza che condensa la filosofia di un'intera classe dirigente, pronta a sacrificare ideali per mantenere lo status quo, seppur sotto mentite spoglie.

Appoggerà il matrimonio del nipote con la figlia di un potente sindaco locale in maniera tale da conservare i propri titoli nobiliari. Questo patto nuziale è ben più di una mera transazione patrimoniale; è la simbolica fusione di due mondi – l'antica nobiltà decadente e la nuova borghesia rampante – un tentativo disperato e per certi versi riuscito di infondere nuova linfa, nuova ricchezza e vitalità (personificata dalla sfolgorante Angelica) in un lignaggio altrimenti condannato alla sterilità. La bellezza selvaggia di Angelica, contrapposta alla nobile stanchezza delle principesse del Salina, simboleggia la forza irruenta di un futuro che si impone.

Un film epico in cui Luchino Visconti da prova di suprema abilità narrativa ma anche cinematografica con piani sequenza memorabili. La sua mise-en-scène opulenta non è mai mera ostentazione, ma un linguaggio attraverso il quale il regista, egli stesso di estrazione aristocratica, esprime la nostalgia e il dramma di un mondo che si disgrega. L'attenzione quasi maniacale ai dettagli delle ambientazioni, l'accuratezza filologica dei costumi firmati da Piero Tosi – che sembrano emergere da un dipinto ottocentesco – contribuiscono a creare un'atmosfera sospesa, quasi un'elegia visiva. Le lunghe, sontuose sequenze creano un'immersione totale, avvolgendo lo spettatore in un tempo dilatato, quasi fosse complice silenzioso di una fine inesorabile. Visconti, in quest'opera monumentale, trascende le sue radici neorealiste per abbracciare un barocchismo crepuscolare, che diventerà cifra stilistica delle sue opere della maturità, come "La Caduta degli Dei" o "Morte a Venezia".

Celebre la scena del ballo in cui il gattopardo fa sfoggio di signorilità e nobile portamento danzando leggiadramente con la promessa sposa del nipote, una Claudia Cardinale bella come una Dea. Questa sequenza, che da sola occupa quasi quarantacinque minuti del film, è un vertice della storia del cinema. Non è solo un intermezzo festivo, ma il culmine tematico e visivo dell'intera opera. La danza del Principe con Angelica, sotto gli sguardi della nuova e della vecchia aristocrazia, è un ultimo, commovente atto di grazia di un uomo che sente il peso della storia e l'inutilità della propria resistenza. Qui, la stanchezza del Principe non è solo fisica, ma esistenziale: il suo volto, illuminato dalla luce tremolante dei candelabri, è una maschera di una lucidità dolente che contempla la propria fine. La musica, i colori, la profusione di corpi e tessuti si fondono in un affresco vibrante, eppure pervaso da una profonda malinconia, il presagio di un'estinzione che avviene nel trionfo apparente della nuova epoca.

Visconti opera una rielaborazione dell’epica nobiliare attraverso un culto rinnovato per l’immagine, per la postura dei suoi interpreti, per le ambientazioni curate nel minimo dettaglio. Ogni inquadratura è una composizione pittorica, permeata di una luce caravaggesca che cesella volti e oggetti, donando loro una profondità quasi metafisica. La macchina da presa non si limita a registrare, ma indaga, rivelando non solo l'esteriorità di un'epoca, ma le intime pulsioni e le incrinature dell'anima dei personaggi. L'aura di decadenza non è un difetto, ma l'essenza stessa dell'opera.

Memorabile rimane in questo senso l’interpretazione di Burt Lancaster. La scelta di un attore americano per incarnare l'archetipo del nobile siciliano suscitò inizialmente perplessità, ma Visconti la difese con veemenza, riconoscendo in Lancaster una statura, una nobiltà d'animo e una stanchezza interiore perfettamente adatte al ruolo. Il suo Principe Fabrizio è un monumento vivente, un uomo che porta il peso della storia sulle spalle, la cui dignità malinconica e lo sguardo pensoso, quasi rassegnato, sono il riflesso di un'anima consapevole della propria inevitabile scomparsa. La sua performance non è una mera imitazione, ma una vera e propria incarnazione di un'idea.

Visconti coglie con quest’opera l’intimo spirito che pervade le pagine del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, sposandone il punto di vista del Principe Fabrizio e al contempo rendendone partecipe lo spettatore attraverso una tecnica narrativa che ne denuda le pulsioni. Il film è, come il romanzo, un'elegia per un mondo che tramonta, una meditazione sulla morte, sul tempo che scorre inesorabile e sulla caducità di ogni cosa. Visconti, con la sua stessa sensibilità aristocratica, non si limita a illustrare la trama, ma entra in risonanza con la profonda tristezza e il fatalismo di Lampedusa, trasformando il romanzo in un'esperienza cinematografica che è allo stesso tempo grandiosa e intimamente tragica. È una lezione di "vanitas", un monito eterno sull'illusione del cambiamento, dove il "tutto cambi perché nulla cambi" risuona come un'eco immortale, consegnando "Il Gattopardo" non solo alla storia del cinema, ma al pantheon delle grandi riflessioni sull'esistenza umana.

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