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Il viaggio della iena

1973

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Un ghigno sardonico, stirato su un volto che è una mappa di compromessi e piccole viltà. Un’andatura sghemba, quasi a chiedere scusa al suolo che calpesta, eppure pronta a scattare per ghermire un avanzo, un’opportunità, un brandello di sopravvivenza. La figura di Asumani, il protagonista de Il viaggio della iena, si imprime nella retina dello spettatore non come un eroe o un antieroe, ma come un principio biologico: la fame. Fame di cibo, di rispetto, di un posto nel mondo che non sia ai margini della carcassa spolpata dalla storia. Djibril Mambéty Diop, con questo suo lungometraggio del 1981, un’opera a lungo considerata perduta e riemersa quasi per miracolo da un archivio di Lisbona, non si limita a raccontare una storia; orchestra una sinfonia stonata e lancinante sulla dislocazione, un poema picaresco che ha la polvere del Sahel nei polmoni e l'anarchia della Nouvelle Vague nel montaggio.

Il film si apre nel ventre caotico e pulsante di una Dakar che è già personaggio, un labirinto di mercati vocianti, vicoli soffocanti e architetture coloniali in disfacimento. Qui, Asumani (interpretato da un magnifico non-professionista, Sotigui Kouyaté, la cui figura allampanata sembra scolpita dal vento) vive di espedienti, è un informatore a gettone, un’ombra che vende altre ombre per pochi franchi. È la iena del titolo, disprezzato da tutti ma necessario all'ecosistema della miseria. Diop lo filma senza giudizio, con una prossimità che è quasi tattile, catturando il sudore, l'odore di spezie e di benzina, il jazz sincopato che sgorga da una radio scassata e che funge da controcanto ironico alla sua esistenza precaria. L'influenza di Touki Bouki (1973) è evidente nell’energia cinetica, nel desiderio di fuga, ma se là i due giovani protagonisti sognavano Parigi come un’utopia pop, qui la fuga di Asumani è una necessità brutale, una discesa agli inferi senza alcuna promessa di paradiso.

Quando un tradimento più grande dei suoi lo costringe a scappare dalla città, il film subisce una metamorfosi radicale. La narrazione, già frammentata, si disintegra in una serie di quadri esistenziali. La città, con la sua logica perversa ma comprensibile, lascia il posto a un entroterra vasto, metafisico, un paesaggio dell'anima che ricorda tanto le lande desolate di un western crepuscolare di Monte Hellman quanto i silenzi cosmici di un’opera di Tarkovskij. Asumani attraversa villaggi fantasma, incontra santoni folli, donne silenziose come sfingi e bambini che lo guardano con una saggezza antica. Il suo non è un viaggio di redenzione, concetto cristiano e occidentale del tutto estraneo alla grammatica spirituale del film. È piuttosto uno spogliamento. Ogni chilometro percorso, ogni incontro surreale, lo priva di un pezzo della sua identità urbana e opportunista, costringendolo a confrontarsi con un vuoto che è al contempo interiore e geografico.

In questo, Asumani è un discendente diretto degli eroi picareschi della letteratura spagnola, un Lazzarillo de Tormes catapultato nell'Africa post-coloniale, ma anche un cugino alla lontana del Bardamu di Céline in Viaggio al termine della notte. Come loro, la sua unica filosofia è la sopravvivenza, e il suo viaggio è un'odissea nichilista attraverso l'assurdità della condizione umana. Ma Diop, a differenza di Céline, non sprofonda mai nel cinismo assoluto. Inietta nella disperazione lampi di una bellezza abbacinante e di un umorismo surreale, quasi beckettiano. Una scena su tutte: Asumani, stremato dalla sete, si imbatte in un camionista che trasporta bottiglie di Coca-Cola, simbolo supremo del neocolonialismo capitalista. Il camionista si rifiuta di dargli da bere, ma gli offre un sermone sull’importanza del commercio globale. La sequenza è girata in un unico piano-sequenza traballante, con il ronzio delle cicale che sale a un volume assordante, trasformando un dramma della sete in una farsa grottesca sul cortocircuito tra modernità e bisogni primari.

Sul piano formale, Il viaggio della iena è un atto di guerriglia cinematografica. Si narra che Diop abbia girato con pellicola 16mm scaduta, donatagli da una troupe televisiva francese. L'instabilità chimica della pellicola, esposta al caldo torrido, ha prodotto delle dominanti cromatiche anomale, delle bruciature ai bordi dell'inquadratura, delle fluttuazioni di grana che un altro regista avrebbe scartato come errori tecnici. Diop, invece, le incorpora nel tessuto estetico del film. Questi "difetti" diventano la cicatrice visibile della narrazione, un correlativo oggettivo della psiche ferita del protagonista e di un intero continente. La partitura cromatica del film vira da un ocra accecante a un blu profondo e notturno, colori non realistici ma emozionali, come se la pellicola stessa stesse sanguinando le emozioni dei personaggi. È un’estetica che sembra anticipare di decenni le sperimentazioni visive di autori come Wong Kar-wai, ma radicata in una poetica della scarsità, del "fare cinema con niente" che era propria delle nouvelles vagues del Sud del mondo.

Il film è anche un profondo dialogo meta-testuale con l'immagine stessa dell'Africa. Diop rifiuta categoricamente l'esotismo e la retorica terzomondista. La sua Africa non è un Eden pre-coloniale da rimpiangere, né una vittima passiva da compiangere. È un organismo complesso, contraddittorio, pieno di energia e di inerzia, di magia e di squallore. La iena, Asumani, diventa allora una potente metafora: è l'africano moderno, sradicato dalle tradizioni ma non ancora integrato in una modernità che gli si presenta sotto forma di feticci incomprensibili (la Coca-Cola, i manifesti sbiaditi di film americani). È costretto a essere un "bricoleur" della propria esistenza, assemblando un’identità con i frammenti che trova, proprio come un griot assembla una storia con frammenti di miti e cronache.

Il viaggio si conclude non con un arrivo, ma con una dissolvenza nel paesaggio. Asumani, ridotto all'essenza, si confronta con una vera iena, l'animale. Non c'è lotta, né catarsi. Solo un momento di riconoscimento silenzioso, uno sguardo tra due esseri che conoscono la legge fondamentale del mondo: mangiare o essere mangiati, e forse, trovare una strana dignità in questo ciclo eterno. L'ultima inquadratura lo mostra come una piccola figura che si allontana verso un orizzonte infinito, né salvato né dannato, semplicemente in cammino.

Rivedere Il viaggio della iena oggi significa confrontarsi con un'opera di una modernità sconcertante. È un film che parla del nostro presente globale di migrazioni, di identità fluide e di crisi di senso, ma lo fa con un linguaggio cinematografico che è al contempo ancestrale e d'avanguardia. È un'esperienza che scuote, che sporca, che non offre risposte facili ma pone domande essenziali. Non è un film da "apprezzare" nel senso borghese del termine; è un film da subire, da respirare, un pezzo di cinema che si attacca addosso come la polvere del deserto e continua a bruciare negli occhi molto tempo dopo che le luci in sala si sono riaccese. Un capolavoro necessario, una ferita che non si rimargina.

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