Vampyr - Il Vampiro
1932
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Regista
Il cinema, nella sua essenza più pura e spettrale, è una seduta spiritica. Un rito collettivo in cui ombre di luce danzano su uno schermo-sudario per evocare mondi, memorie e, soprattutto, sogni. Se questa affermazione ha una sua verità ontologica, allora Vampyr di Carl Theodor Dreyer non è semplicemente un film; è l'ectoplasma visivo di quel rito, il suo distillato più arcano e perturbante. Vederlo non è assistere a una narrazione, ma entrare in uno stato di dormiveglia, un’ipnosi febbrile da cui si emerge confusi, cambiati, come se si fosse sbirciato oltre il velo che separa la nostra realtà da un'altra, più pallida e silenziosa.
Girato nel 1932, in quella terra di nessuno crepuscolare tra il muto e il sonoro, Vampyr rifiuta sdegnosamente le convenzioni di entrambi. A un solo anno di distanza dal gotico teatrale e baritonale del Dracula di Tod Browning, Dreyer compie un'operazione di radicale astrazione. Rimuove il folklore, l'aristocrazia decadente, il carisma erotico del predatore. Il suo vampirismo non è un atto di aggressione fisica, ma un'infezione dell'anima, una nebbia spirituale che prosciuga la volontà e confonde i confini del sé. Il protagonista, Allan Gray – interpretato dal suo stesso finanziatore, il Barone Nicolas de Gunzburg, sotto lo pseudonimo di Julian West – non è un cacciatore di vampiri alla Van Helsing. È piuttosto uno "studente dell'occulto", un sognatore, un flâneur dell'incubo. Il suo ruolo non è agire, ma osservare; è il nostro psicopompo, un testimone passivo trascinato da forze che non comprende, simile al K. di Kafka smarrito nel labirinto di un castello metafisico.
La logica narrativa è la prima vittima sacrificale sull'altare di Dreyer. Il film procede per ellissi, suggestioni, scotomi visivi. Un uomo con una falce che suona una campana, un campanaro con la sua ombra decapitata, un medico la cui ombra si separa per compiere atti nefasti. Queste non sono tappe di una trama, ma geroglifici di un sogno. Dreyer, l'alchimista della luce, non lavora con le tenebre espressioniste di un Murnau, le cui ombre sono entità solide e minacciose. Al contrario, il mondo di Vampyr è immerso in una luce lattiginosa, malata. Filmato quasi interamente in esterni e con una tecnica di "flou" ottenuta stendendo una garza traslucida davanti all'obiettivo, il film sembra costantemente fuori fuoco, come visto attraverso una cataratta o le lacrime. Le immagini sono sbiancate, sovraesposte, quasi cancellate. È un incubo in pieno giorno, dove il terrore non si annida nel buio ma nell'abbagliante, indistinta bianchezza della morte. In questo, Dreyer è più vicino alla desolazione spoglia e silenziosa dei quadri del suo connazionale Vilhelm Hammershøi che ai set contorti di Caligari.
Anche il suono è trattato come un elemento spettrale. Vampyr è tecnicamente un "talkie", ma il dialogo è ridotto a un sussurro, a frammenti enigmatici. Il vero paesaggio sonoro è composto da silenzi innaturali squarciati da rumori isolati e amplificati: l'abbaiare di un cane, il fruscio del vento, le pale di un mulino, il rantolo di un moribondo. Dreyer comprende, con un'intuizione che anticipa di decenni il cinema di Bresson o Tarkovskij, che il silenzio può essere più assordante di qualsiasi urlo. L'audio non serve a spiegare l'azione, ma a rendere ancora più tangibile l'atmosfera di isolamento e oppressione psicologica. Il film stesso sembra un fantasma del cinema muto che infesta l'era del sonoro, incapace di parlare fluentemente la nuova lingua ma capace di emettere gemiti e sospiri che ci gelano il sangue.
È in questo contesto di disintegrazione sensoriale che si innestano le sequenze che hanno marchiato a fuoco l'inconscio cinematografico. Su tutte, la celeberrima soggettiva di Allan Gray dal suo feretro. Dopo un'esperienza extracorporea in cui il suo doppio spettrale assiste alla propria apparente morte, la macchina da presa viene sigillata nella bara con lui. Guardiamo il mondo attraverso una piccola finestra di vetro: il volto addolorato di Gisèle, il coperchio che viene inchiodato, il cielo che scorre veloce mentre veniamo trasportati verso la tomba. È una delle intuizioni più terrorizzanti e geniali della storia del cinema. Per la prima volta, lo spettatore non osserva la morte, la esperisce. Si è trasformati in un cadavere cosciente, un puro sguardo intrappolato nell'orrore della propria impotenza. È un'acrobazia meta-testuale sbalorditiva: noi, il pubblico, siamo sempre stati questo sguardo passivo e imprigionato, e Dreyer ce lo sbatte in faccia con una brutalità concettuale inaudita. Questa sequenza, da sola, contiene il DNA di innumerevoli incubi futuri, da Roman Polanski a David Lynch.
L'ispirazione letteraria, "Carmilla" di Sheridan Le Fanu, è appena un'eco lontana. Dreyer non adatta una storia, ne evoca lo spirito. Prende il tema del vampirismo lesbico e subliminale di Le Fanu e lo astrae in un contagio universale, una stanchezza esistenziale che si propaga come una malattia. La vera antagonista, la vecchia Marguerite Chopin, è più una presenza che un personaggio, una macchia sul paesaggio, la fonte di una maledizione ancestrale. E la sua fine, come quella del suo complice, il medico (simbolo di una scienza razionale e impotente), è tutt'altro che eroica. Il dottore non viene trafitto da un paletto, ma soffoca grottescamente in un mulino, sepolto da un'ondata di farina bianca. Un'altra metafora visiva perfetta: il male viene annientato, asfissiato, dalla stessa materia bianca e polverosa che permea l'intero film. Una morte assurda, quasi da racconto di Beckett, che nega ogni catarsi tradizionale.
Fallimento commerciale e di critica alla sua uscita, Vampyr fu una creatura troppo aliena per il suo tempo. Non era il brivido gotico che il pubblico si aspettava, né il dramma psicologico per cui Dreyer era già noto. Era qualcos'altro: un poema visivo sull'intersezione tra vita e morte, un saggio filmico sulla natura della percezione. La sua influenza non è stata immediata, ma carsica, sotterranea. Ha nutrito le visioni di cineasti che hanno cercato di filmare l'infilmabile: l'inconscio, l'angoscia, il sogno. Senza la logica febbrile di Vampyr, sarebbe più difficile immaginare l'onirismo industriale di Eraserhead, le allucinazioni borghesi di Buñuel, o l'oscurità interiore di Ingmar Bergman in L'ora del lupo.
In definitiva, affrontare Vampyr significa abbandonare la pretesa di "capire" e lasciarsi sommergere. È un film che non si guarda, si respira. È un'esperienza liminale che dimostra come il cinema possa trascendere la narrazione per diventare una forma di magia, un incantesimo proiettato a ventiquattro fotogrammi al secondo. È la prova che a volte, per vedere la verità, non bisogna mettere a fuoco, ma accettare la nebbia.
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