Viaggio in Italia
1954
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Regista
Un velo di cenere copre ogni cosa in Viaggio in Italia. Non la cenere vulcanica che duemila anni fa ha sigillato Pompei in un'istantanea di terrore e amore, ma una polvere più sottile, invisibile, che si è depositata sull'anima dell'uomo e della donna moderni. È la cenere della noia, del disincanto, della routine che ha eroso un matrimonio fino a lasciarne solo lo scheletro formale. Roberto Rossellini, in quello che è forse il suo gesto cinematografico più radicale e profetico, non filma una storia, ma la sua assenza. Cattura il vuoto che pulsa tra due corpi, la distanza siderale che separa due menti che un tempo si conoscevano, o forse credevano soltanto di farlo.
George Sanders e Ingrid Bergman, nei panni di Alexander e Katherine Joyce, non sono semplici personaggi; sono spettri. Fantasmi di un'agiata borghesia inglese catapultati in un Sud Italia brulicante, tellurico, incomprensibile. Lui, un uomo d'affari cinico e pragmatico, sigillato in un sarcasmo che è la sua ultima trincea contro l'emozione. Lei, una donna inquieta, intrisa di un romanticismo letterario e frustrato, che cerca nelle rovine antiche e nei paesaggi una risonanza per il proprio deserto interiore. La loro automobile, una lussuosa Bentley, è un'astronave che attraversa un pianeta alieno, un guscio ermetico che li isola da un mondo la cui vitalità primordiale non fa che acuire la loro necrosi sentimentale.
È impossibile, e intellettualmente disonesto, scindere Viaggio in Italia dalla sua stessa genesi. Il film è l'incarnazione della crisi, artistica e personale, tra Rossellini e la Bergman. La loro unione, nata da uno scandalo che aveva fatto tremare Hollywood e il Vaticano, si stava sgretolando sotto il peso delle differenze culturali e delle aspettative tradite. Quella tensione è palpabile in ogni inquadratura. I dialoghi, spesso improvvisati sul set, hanno il sapore amaro di liti vere, di recriminazioni sussurrate che diventano sentenze universali. La performance della Bergman è un capolavoro di implosione: il suo volto, un tempo icona di un'integrità quasi divina, diventa una maschera su cui si disegnano le crepe di un'anima che sta andando in frantumi. Sanders, dal canto suo, è la quintessenza dell'atarassia britannica che si rivela per ciò che è: una forma di disperazione congelata.
Rossellini compie qui un'operazione che segna uno spartiacque nella storia del cinema. Abbandona le macerie fisiche del Neorealismo post-bellico per esplorare quelle psicologiche. Se in Roma, città aperta la macchina da presa pedinava la Storia nel suo farsi, qui pedina l'assenza di storia, il tempo morto, i momenti insignificanti che, accumulandosi, rivelano la verità ontologica di un'esistenza. È un cinema che non teme il vuoto, anzi, lo elegge a proprio protagonista. In questo, Rossellini anticipa di quasi un decennio la deriva esistenziale di Antonioni, la frammentazione narrativa della Nouvelle Vague. Non è un caso che i giovani critici dei Cahiers du Cinéma, da Godard a Rivette, abbiano eletto questo film a manifesto fondativo del cinema moderno. Avevano capito che la vera rivoluzione non era più mostrare la realtà, ma filmare il modo in cui la coscienza la percepisce, la deforma, la subisce.
Il viaggio dei Joyce non è geografico, ma ermeneutico. L'Italia che attraversano non è un paese, ma un testo da decifrare, un oracolo che parla una lingua arcaica e violenta. Ogni tappa è una stazione di una profana via crucis. Il Museo Archeologico di Napoli, con le sue statue classiche imponenti e impassibili, sottolinea la fragilità e la caducità dei loro corpi e dei loro sentimenti. Le solfatare dei Campi Flegrei, con i loro fumi sulfurei che salgono da un sottosuolo inquieto, sono la metafora perfetta del loro inferno coniugale. E poi, la visita al Cimitero delle Fontanelle, un ossario dove il culto popolare napoletano intrattiene un dialogo diretto e quasi affettuoso con la morte. Katherine vaga tra cataste di teschi anonimi, "anime pezzentelle", e per la prima volta avverte il brivido di una trascendenza che non è quella fredda e istituzionale della sua cultura anglicana, ma una spiritualità carnale, quasi pagana, che mescola vita e morte senza soluzione di continuità.
Ma è a Pompei che il film raggiunge il suo apice, un momento di cinema puro che si cristallizza nell'eternità. Durante la visita agli scavi, viene riportata alla luce una cavità nel terreno. Gli archeologi vi colano del gesso, secondo la celebre tecnica di Giuseppe Fiorelli. Lentamente, dalla terra riemerge non un oggetto, ma un gesto: la forma di due corpi, un uomo e una donna, avvinghiati nell'ultimo istante prima che la furia del vulcano li consumasse. Un abbraccio pietrificato, un amore reso eterno dalla catastrofe. Di fronte a questa epifania, le difese di Katherine crollano. L'inquadratura di Rossellini sul suo volto che si scompone in un pianto irrefrenabile è uno dei momenti più devastanti della storia del cinema. In quell'istante, Katherine non vede solo una reliquia del passato; vede il fantasma di ciò che il suo amore con Alexander avrebbe potuto essere e non è stato. Vede la distanza incolmabile tra un amore capace di sfidare la morte e il suo, morto di inedia e di silenzio. È una pugnalata che arriva da duemila anni di distanza. È la Storia che giudica la modernità e la condanna per la sua aridità sentimentale.
E questo ci porta al finale, quel "miracolo" così controverso e spesso frainteso. Bloccati nel caos di una processione religiosa, separati dalla folla, Alexander e Katherine si ritrovano spinti l'uno verso l'altra. Si chiamano, si cercano, e quando finalmente si raggiungono, si abbracciano disperatamente. "Ti amo," dice lei, con una semplicità che suona quasi aliena dopo un'ora e mezza di dialoghi cifrati e sguardi ostili. Molti hanno visto in questo finale una concessione, una facile risoluzione quasi divina. Ma è una lettura superficiale. Il miracolo non è un intervento esterno, ma un'implosione interna. Non è la fede a salvarli, ma la vita stessa, nella sua forma più caotica, irrazionale e fisica. La folla che li preme, il contatto forzato dei corpi, la paura primordiale di perdersi: tutto questo frantuma le loro sovrastrutture intellettuali e li costringe a un gesto puro, istintivo. È l'epifania di James Joyce in Gente di Dublino: un momento di improvvisa rivelazione che squarcia il velo della paralisi quotidiana. Non sappiamo se il loro matrimonio sia salvo. Rossellini è troppo intelligente per offrirci una risposta. Ciò che ci mostra non è una soluzione, ma una possibilità. L'abbraccio finale non è la fine della crisi, ma forse, solo forse, il suo vero inizio.
Viaggio in Italia è un film che respira. Respira la polvere dei secoli, il calore del sole del Sud, il puzzo di zolfo della terra e l'alito gelido di un amore che muore. È un'opera che, come le grandi rovine che mostra, diventa più potente e significativa col passare del tempo. Ha insegnato al cinema a filmare i pensieri, a dare corpo al non detto, a trovare il dramma non nell'azione, ma nell'attesa. È il punto zero da cui ripartire per comprendere tutto ciò che è venuto dopo, un sussurro esistenziale che ancora oggi risuona con la forza di un'eruzione vulcanica.
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