Zero in condotta
1933
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Regista
Un treno sbuffa vapore e fuliggine, tagliando la campagna francese come una cicatrice meccanica. Dentro, due ragazzini, Caussat e Colin, trasformano il loro scompartimento in un microcosmo di pura anarchia infantile. Palloncini, giocattoli, gesti buffi: è un carnevale tascabile, un ultimo respiro di libertà prima che le porte del collegio si chiudano come quelle di un sepolcro. Questa sequenza inaugurale di "Zero in condotta" non è un semplice prologo; è il manifesto programmatico di Jean Vigo, un’iniezione di vitalità surrealista nel corpo stagnante del realismo poetico francese. Vigo, figlio dell'anarchico militante Miguel Almereyda (pseudonimo anagrammatico di "y'a la merde"), morto in circostanze mai chiarite in una cella di prigione, non dirige un film: esorcizza i demoni della sua stessa infanzia traumatica, trasfigurando l'oppressione in un poema cinematografico di 44 minuti, tanto breve quanto tellurico.
Girato nel 1933, in un'Europa che scivolava inesorabilmente verso il baratro autoritario, "Zero in condotta" fu immediatamente percepito per quello che era: una granata lanciata contro le fondamenta dell'establishment. La censura francese non esitò, bollandolo come "antipatriottico" e bandendolo fino alla Liberazione, nel 1945. La sua colpa non era tanto quella di mostrare una rivolta scolastica, quanto quella di averne compreso e celebrato la sacralità, l'insopprimibile diritto dell'immaginazione a rovesciare il potere. Il collegio di Vigo non è un'istituzione educativa, ma un'allegoria grottesca dello Stato repressivo. I sorveglianti sono caricature rabelaisiane, figure deformi viste attraverso la lente deformante del ricordo infantile: il supervisore "Pète-Sec" (scorreggia secca), che ruba i dolciumi ai ragazzi; il professore di scienze, che imita goffamente Charlie Chaplin; e su tutti, il preside, un nano barbuto la cui statura fisica è l'inverso proporzionale della sua tirannia, un Jarry redivivo che si aggira per i corridoi come un despota da operetta.
Vigo disintegra ogni pretesa di realismo. L'autorità non è solo ingiusta, è ridicola. Gli adulti sono marionette prive di spessore psicologico, maschere pirandelliane condannate a ripetere un copione di ottusità. L'unico barlume di umanità nel corpo docente è il nuovo sorvegliante, Huguet, un Chaplinesque sognatore che si unisce ai giochi dei ragazzi, fa le capriole e li porta in gita come un pifferaio magico. È l'intellettuale che simpatizza con la rivoluzione, l'alleato inaspettato, ma la sua ribellione è individuale e sognante, non collettiva e incendiaria come quella che sta per esplodere. Il vero cuore pulsante del film è la comunità dei ragazzi, una falange oplitica in pantaloni corti. Caussat, Colin, Bruel e il delicato, quasi androgino Tabard, che rifiuta di chiedere scusa per un'accusa ingiusta, formano il nucleo di una cellula rivoluzionaria. La loro non è una ribellione politica nel senso ideologico del termine, ma qualcosa di più primordiale: è la rivendicazione del corpo, del gioco, del sogno contro un sistema che vuole addomesticarli, trasformarli in cittadini obbedienti e senza fantasia.
La struttura narrativa è frammentata, episodica, come un ricordo che affiora per lampi di genio. Vigo contamina la realtà con l'onirico, anticipando di decenni il cinema di un Fellini o di un Buñuel. Lo scheletro disegnato sulla lavagna che prende vita e si anima, la processione dei ragazzi che marciano al rallentatore, figure spettrali in un rituale pagano: sono squarci nel velo della verosimiglianza, incursioni nel territorio del subconscio dove le leggi della fisica e della logica sono sospese. E poi, c'è l'apoteosi, la scena che da sola basterebbe a iscrivere Vigo nel pantheon dei maestri: la battaglia di cuscini nel dormitorio. Non è una semplice zuffa; è una liturgia, una cerimonia di liberazione. Girata in un slow motion etereo, con le piume che fluttuano nell'aria come neve incantata, la sequenza trasforma la violenza infantile in un balletto di estatica anarchia. È l'equivalente cinematografico di una poesia di Rimbaud, una "barca ebbra" che naviga libera dalle costrizioni della metrica e della grammatica. In quei pochi minuti, Vigo cattura l'essenza stessa della libertà: un'esplosione di energia pura, gioiosa e distruttiva, che non chiede permesso e non offre giustificazioni.
L'influenza di questo mediometraggio è incalcolabile, un seme gettato nel terreno del cinema futuro. Senza la rivolta estatica di Caussat e compagni, è difficile immaginare la corsa finale e disperata di Antoine Doinel verso il mare ne "I 400 colpi" di François Truffaut. Ma se Truffaut rilegge Vigo attraverso un filtro di malinconia esistenzialista, concentrandosi sulla solitudine del ribelle, Lindsay Anderson, con il suo "If....", ne raccoglie l'eredità più incendiaria e politica. La battaglia di cuscini di Vigo diventa in Anderson una vera e propria guerriglia armata, dove i ragazzi non si limitano a lanciare oggetti dai tetti, ma sparano sui rappresentanti di quel mondo adulto che li ha oppressi. "Zero in condotta" è l'archetipo, il grado zero della ribellione cinematografica, la crisalide da cui sarebbero uscite farfalle ben più aggressive.
Ma ridurre il film a un semplice precursore sarebbe un errore. La sua forza risiede proprio nella sua forma impura, nel suo essere un oggetto cinematografico unico, a metà tra il documentario autobiografico, la fiaba nera e il pamphlet surrealista. La sua breve durata non è un limite, ma una virtù. È un poema fulminante, un haiku visivo che condensa in meno di un'ora un universo di significati. Non c'è tempo per l'introspezione psicologica convenzionale; i personaggi sono simboli, forze in campo in una battaglia cosmica tra l'ordine e il caos, la regola e l'immaginazione.
La scena finale, con i quattro leader della rivolta che marciano trionfanti sui tetti della scuola durante la cerimonia ufficiale, bombardando il cortile con libri e cianfrusaglie, non è solo una vittoria. È un'ascensione. I ragazzi non stanno semplicemente scappando; stanno conquistando un nuovo piano dell'esistenza, un orizzonte più alto da cui guardare con disprezzo il mondo meschino degli adulti. In quel momento, "Zero in condotta" cessa di essere la storia di un gruppo di studenti francesi degli anni '30 e diventa un mito universale. È il racconto eterno della giovinezza che rifiuta di piegarsi, dell'istinto vitale che spezza le catene della tradizione, della poesia che fa a pezzi la prosa noiosa e grigia del potere. Jean Vigo, morto di tubercolosi a soli 29 anni, ci ha lasciato solo una manciata di opere, ma questo film è il suo testamento immortale: un grido di battaglia che, a quasi un secolo di distanza, risuona ancora con una chiarezza assordante e meravigliosamente sovversiva.
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