Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Brother

1997

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Un fantasma atterra a Los Angeles. Non è un’entità ectoplasmatica, ma qualcosa di forse più spettrale: un uomo che è la personificazione di un codice defunto, un’eco di un mondo che non esiste più, nemmeno nel luogo da cui proviene. Quando Yamamoto, interpretato da un Takeshi Kitano al suo apice di impassibilità granitica, scende dall'aereo, non è solo un yakuza in esilio che sbarca in America. È un samurai senza padrone, un ronin del tardo capitalismo, la cui katana è stata sostituita da una Glock e il cui feudo è un angolo desolato della Città degli Angeli. Brother (2000) è il saggio di Takeshi Kitano sull'esportazione, e la conseguente, inevitabile corruzione, non tanto di un genere cinematografico, quanto di una grammatica esistenziale. È il suo Lost in Translation immerso nel sangue invece che nel malinconico jet-lag.

Il film si apre nel grigiore bluastro di una Tokyo che Kitano ha reso la sua cifra stilistica, un purgatorio urbano dove i rituali yakuza hanno la solennità di una cerimonia del tè interrotta da esplosioni di violenza fulminea. Yamamoto, detto "Aniki" (fratello maggiore), è un relitto. Il suo clan è stato sconfitto, il suo mondo di lealtà feudali e onore codificato è stato assorbito dalla logica corporativa di un nemico più grande. Il suo esilio a Los Angeles non è una fuga, ma una specie di morte rituale. Eppure, questo fantasma si rifiuta di svanire. Incontra il fratellastro Ken, un piccolo spacciatore, e in un ambiente che non capisce – e da cui non è capito – fa l'unica cosa che sa fare: imporre il suo ordine attraverso il caos. Inizia a costruire un nuovo clan, un impero improbabile fondato su una violenza tanto metodica quanto assurda.

Qui Kitano orchestra il suo esperimento più audace e, per certi versi, più disperato. Prende il distillato puro del suo cinema – il nichilismo laconico, la violenza improvvisa e non spettacolarizzata, i momenti di umorismo surreale e la malinconia esistenziale – e lo inietta nelle vene di un'iconografia cinematografica completamente aliena: il gangster movie americano. Il risultato è un affascinante cortocircuito culturale. Le strade assolate di L.A., immortalate da Hollywood come un palcoscenico per sparatorie iper-coreografate e dialoghi scoppiettanti alla Tarantino, diventano sotto lo sguardo di Kitano un deserto dell'anima, vuoto e silenzioso. L'energia cinetica del cinema americano viene soffocata dalla stasi contemplativa del regista giapponese. Le sparatorie non sono balletti di morte alla John Woo; sono eventi goffi, sbrigativi, quasi burocratici. La morte è un incidente, non un climax.

Yamamoto stesso è un paradosso vivente, una figura che sembra uscita da un romanzo di Hemingway per poi perdersi in un film di Sam Peckinpah. Il suo silenzio non è vuoto, ma carico di un peso ancestrale. Comunica attraverso gesti minimi e atti di violenza estrema, come il celebre, agghiacciante uso delle bacchette per perforare un timpano. È un eroe hemingwayano nel suo aderire a un codice personale ("grace under pressure") in un universo privo di significato, ma la sua traiettoria è quella di un personaggio di Yukio Mishima, ossessionato dalla purezza di un ideale estetico – in questo caso, il perfetto yakuza – fino all'autodistruzione. Non parla inglese, e non ne ha bisogno. La violenza diventa la sua esperanto, l'unica lingua universale in grado di abbattere le barriere culturali tra lui, i membri afroamericani della sua nuova "famiglia" e i rivali messicani e italiani.

Il film è una profonda meditazione sulla natura del linguaggio. In un mondo multiculturale dove le parole falliscono, il potere si manifesta nella sua forma più primitiva. Ma Kitano è troppo intelligente per glorificare questa brutalità. Al contrario, la mostra per quello che è: un'aberrazione sterile. L'impero di Yamamoto è un castello di carte costruito su un malinteso. I suoi nuovi "fratelli", come il Denny di Omar Epps, sono attratti dal suo carisma silenzioso e dalla sua efficienza letale, ma non ne comprendono la logica interna, il substrato filosofico. Per loro, è un gioco, una scorciatoia per il potere e il rispetto. Per Yamamoto, è l'unica forma di esistenza possibile, una performance rituale che può concludersi solo con la morte. È qui che Brother trascende il genere e diventa una tragedia meta-testuale. Kitano non sta solo raccontando la storia di uno yakuza a L.A.; sta mettendo in scena il conflitto tra due mitologie cinematografiche. L'archetipo del gangster americano, mosso dal desiderio di ascesa sociale e ricchezza (il Sogno Americano nella sua versione criminale), si scontra con l'archetipo del samurai/yakuza, la cui ricerca non è per il profitto, ma per una "bella morte", un finale coerente con il proprio codice d'onore.

Questa collisione è evidente nella struttura del film, che oscilla tra il familiare e l'alieno. Ci sono i tropi del gangster movie – l'ascesa al potere, le guerre tra gang, il tradimento – ma sono costantemente sabotati dall'interno dalla sensibilità di Kitano. Le scene di svago, i giochi improvvisati di basket o le partite a dadi sulla spiaggia, sono intrisi di una tenerezza quasi infantile, momenti di quiete che rendono la successiva esplosione di violenza ancora più assordante e insensata. È lo stesso meccanismo di Sonatine (1993), ma qui l'idillio sulla spiaggia è condannato fin dall'inizio dall'impossibilità di una vera fusione culturale. Questi uomini possono condividere un pasto o una risata, ma i loro mondi interiori rimangono galassie distanti.

Brother è anche un commento ironico e amaro sulla percezione occidentale della cultura giapponese. Kitano, consapevole del suo status di icona internazionale, interpreta consapevolmente lo stereotipo del giapponese impassibile e ultra-violento. Yamamoto è l'incarnazione di tutto ciò che il pubblico occidentale si aspetta da un film di yakuza, portato alle sue estreme conseguenze. È un'esibizione, e Kitano è sia l'attore che il critico di questa performance. Il finale è la chiave di volta di questa lettura. Dopo aver sacrificato tutto per salvare Denny, l'ultimo membro della sua famiglia surrogata, Yamamoto inscena la sua ultima, grande performance. La borsa che lascia a Denny non contiene il denaro che si aspetta, ma solo un gesto di affetto fraterno. Il vero lascito di Yamamoto è la sua morte, che assicura la sopravvivenza del "fratello". E l'ultima battuta del film, pronunciata da un mafioso italo-americano che scruta il cadavere di Yamamoto, è di una crudeltà perfetta: "Pensavo fosse solo un fottuto giapponese qualunque". L'intera epopea tragica di Yamamoto, la sua aderenza a un codice millenario, la sua ricerca di un significato in un mondo profano, viene ridotta a un insulto razziale. È il commento definitivo di Kitano sull'incomunicabilità, il fallimento totale del suo esperimento di trapianto culturale.

Prodotto in un momento in cui il cinema asiatico stava vivendo un'esplosione di popolarità in Occidente, Brother può essere visto come la risposta scettica e disillusa di Kitano a questo fenomeno. Mentre registi come Ang Lee (La tigre e il dragone, 2000) cercavano di creare un ponte tra le sensibilità orientali e occidentali, Kitano costruisce un ponte solo per farlo saltare in aria. Il film è un monito: certe grammatiche culturali non sono traducibili, e il tentativo di farlo può portare solo alla parodia o alla tragedia. È un film imperfetto, forse meno coeso dei suoi capolavori puramente giapponesi come Hana-bi (1997), ma la sua ambizione e la sua onestà intellettuale sono sbalorditive. Brother non è un film su una guerra tra gang; è un film sulla solitudine cosmica di un'idea fuori dal tempo e fuori luogo, un'elegia funebre per un mondo di fantasmi in una città costruita sui sogni. E nel suo fallimento glorioso, ci dice più sulla natura del cinema e della cultura di tanti successi acclamati.

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