Brother
1997
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Regista
È il 1997. L'impero è crollato, lasciando un vuoto che non è stato riempito dalla libertà, ma da un capitalismo caotico e selvaggio, da un gangsterismo diffuso e da una profonda crisi d'identità. Brother è la diagnosi febbrile di quell'epoca, girata con quattro soldi, con una fotografia "sporca" che puzza di sigarette economiche e vodka stantia, e un'urgenza che lo fa sembrare più un bollettino di guerra che un'opera di finzione. È il Taxi Driver di un impero collassato, ma il suo Travis Bickle non è un reduce alienato; è un reduce adattato.
Il cuore pulsante di questo tumore è Danila Bagrov. E qui dobbiamo fermarci, perché il cinema russo moderno si divide in "prima" e "dopo" Danila. L'interpretazione di Sergej Bodrov Jr. (la cui tragica e prematura scomparsa successiva ha cementato il suo status di icona) non è una performance: è un'incarnazione. Danila non è un eroe. Non è un antieroe. È un neo-eroe, una tabula rasa morale su cui una nazione disperata ha proiettato la sua sete di giustizia. Torna dalla Prima Guerra Cecena (il "Vietnam" russo, un'altra ferita aperta), vestito con un maglione informe che diventerà un feticcio generazionale, e una gentilezza quasi infantile. È educato, ama sua madre, adora la musica rock dei Nautilus Pompilius. E, in un battito di ciglia, senza il minimo cambiamento nel suo sguardo placido, è un killer sociopatico di un'efficienza terrificante. È il "santo folle" (lo jurodivyj) della tradizione letteraria russa, ma armato con un fucile a canne mozze. È il Raskol'nikov di Dostoevskij, ma senza il tormento filosofico; Danila non ha una tesi sull'essere un "superuomo", ha solo un istinto tribale: proteggere i "suoi" (il fratello, gli indifesi) ed eliminare gli "altri".
La sua destinazione è la San Pietroburgo di Balabanov. Dimenticate l'Ermitage, i palazzi imperiali, le Notti Bianche. La Pietroburgo di Brother è quella di Delitto e Castigo spogliata di ogni romanticismo gotico. È un labirinto di cortili umidi (kolodcy, "pozzi"), appartamenti comunali fatiscenti (kommunalki), tram sferraglianti e mercati neri. La fotografia di Sergej Astachov è deliberatamente anti-estetica, quasi documentaristica. La città non è uno sfondo, è un ecosistema ostile, un purgatorio fangoso dove il crimine non è un'aberrazione, ma l'unica logica economica rimasta. È l'esatto opposto della Mosca "lucida" e corrotta che Danila visiterà nel sequel. Qui, siamo ancora nel ventre molle del collasso, e Balabanov ci costringe a respirare l'aria viziata di una civiltà che ha smarrito le sue coordinate.
Non si può analizzare la psiche di Danila senza dissezionare la sua colonna sonora. Il suo walkman (e poi lettore CD) non è un accessorio; è un organo vitale, uno scudo semiotico contro un mondo che non capisce e da cui non vuole essere capito. La musica dei Nautilus Pompilius non è un semplice accompagnamento; è il testo del film. È la sua coscienza, il suo ethos. Le ballate malinconiche di Vjačeslav Butusov, residuo dell'idealismo rock della Perestrojka, sono l'unica cosa "pura" in cui Danila crede. Quando parte "Kryl'ja" (Ali), Danila entra in una dimensione diversa, dove la sua violenza non è crimine, ma giustizia. La musica è il suo Vangelo, l'unica ideologia che ha sostituito quella fallita dello Stato. È il contrasto tra il suono malinconico e poetico del rock russo e la brutalità sorda delle azioni di Danila che crea il cortocircuito morale del film.
La moralità di Brother è un campo minato. La trama è puro noir della disperazione: Danila arriva a Pietroburgo per cercare il fratello maggiore, Viktor (Viktor Suchorukov), che crede essere un uomo di successo. Scopre che il "fratello" (il brat del titolo) è un sicario di mezza tacca, debole, logorato e terrorizzato. Il vero tradimento, per Danila, non è il crimine; è la debolezza del fratello, la sua corruzione morale in cambio di denaro. Danila, quasi per caso, ne rileva il "lavoro", ma lo fa con un codice diverso. La sua violenza è una forma di pulizia. E qui il film si fa pericolosamente seducente. Danila protegge gli unici due "innocenti" che trova: Nemets-Hoffman (Jurij Kuznecov), un senzatetto ebreo/tedesco che rappresenta la vecchia intellighenzia spazzata via, e Sveta (Svetlana Pis'mičenko), una tranviera intrappolata in un matrimonio violento.
Eppure, questo "eroe" è visceralmente, casualmente xenofobo. Le sue battute sui caucasici, sui francesi ("quella tua musica... è una merda"), sugli americani ("i soldi rovinano la gente") non sono un difetto del personaggio; sono il personaggio. Balabanov ha il coraggio spietato di mostrarci un "eroe del popolo" (narodnyj geroj) che è anche un nazionalista ottuso. È un paradosso vivente: un razzista che protegge un ebreo, un killer che cita massime morali. La sua famosa frase, "Qual è la forza, fratello? Nei soldi? [...] La forza sta nella verità" (Сила в правде), non è una battuta da B-movie. È il grido di battaglia di una generazione che, avendo perso la "Verità" (la Pravda del Partito), ne cerca disperatamente una nuova, più semplice, scritta col sangue.
La violenza in Brother non è quella estetica di Tarantino, con cui è stato pigramente paragonato. La violenza di Balabanov è goffa, sbrigativa, sporca. Il silenziatore artigianale (un filtro dell'olio e una bottiglia di plastica?) è il simbolo del DIY (fai-da-te) che ha definito gli anni '90, dal commercio alla criminalità. Brother è diventato un fenomeno culturale perché ha catturato un fulmine in bottiglia: il desiderio disperato di un uomo "semplice" che raddrizza i torti, che punisce i "nuovi ricchi" corrotti e protegge i dimenticati. Balabanov ha creato un mito fondativo per la Nuova Russia, un mito pericoloso, reazionario e profondamente seducente. È un film che è divenuto il punto zero da cui tutto il cinema russo successivo ha dovuto, volente o nolente, ripartire.
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