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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Cabiria

1914

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Dinnanzi a un colosso come Cabiria, il critico contemporaneo rischia la sindrome dell'archeologo che, scoprendo una piramide intatta, si sente inadeguato a descriverne la magnificenza con il linguaggio mortale. Perché il film di Giovanni Pastrone non è semplicemente un film; è un'architettura cinematografica, un evento tellurico che nel 1914 scosse le fondamenta della settima arte, allora ancora nella sua infanzia incerta. Guardarlo oggi è come leggere l'epica di Gilgamesh: si percepisce la distanza abissale dei secoli, la gestualità ieratica e aliena di un mondo scomparso, ma al contempo si viene folgorati dalla potenza primigenia e universale del racconto.

Prima di ogni analisi tecnica, è d'obbligo un inchino al nume tutelare che aleggia sull'opera: Gabriele D'Annunzio. Il Vate, con un'operazione di marketing culturale che farebbe impallidire qualsiasi stratega hollywoodiano, non scrisse la sceneggiatura (onore che spetta allo stesso Pastrone), ma donò al film la sua aura di poeta-profeta. Forgiò i nomi dei personaggi (Fulvio Axilla, Maciste, Kroessa), intessendo le didascalie con il suo stile inconfondibile, un tessuto verbale sontuoso e decadente che eleva una vicenda da romanzo d'appendice a poema nazionale. Questo connubio tra l'arte "alta" della letteratura e quella "bassa" e popolare del cinematografo fu una dichiarazione d'intenti potentissima: il cinema non era più un divertimento da baraccone, ma aspirava a diventare l'opera d'arte totale del XX secolo, sintesi di parola, immagine e musica.

E che immagini. Pastrone, celato sotto lo pseudonimo anglofono di Piero Fosco, non si limita a filmare, ma scolpisce lo spazio. L'innovazione che da sola basterebbe a iscrivere Cabiria nel pantheon dei capolavori è l'uso sistematico e consapevole del "carrello". Prima di Pastrone, la macchina da presa era per lo più un occhio immobile, un testimone passivo confinato in platea. Con Cabiria, la cinepresa si libera, fluttua, avanza e arretra con una maestosità inedita. Diventa un fantasma che si aggira tra le colonne ciclopiche del tempio di Moloch, che spia dall'alto le battaglie navali, che si addentra nelle stanze opulente della reggia di Cirta. Questo movimento non è un vezzo tecnico; è una rivoluzione dello sguardo. Lo spettatore del 1914 non era più un semplice osservatore, ma un partecipante, un esploratore immerso in un mondo tridimensionale e vivo. D.W. Griffith, vedendo Cabiria a New York, comprese immediatamente la portata di questa invenzione e la spinse ai suoi estremi due anni dopo, nel suo titanico Intolerance. Ma la scintilla, la liberazione della macchina da presa dal suo giogo teatrale, è tutta italiana, tutta pastoriana.

La trama, ambientata durante la Seconda Guerra Punica, è un pretesto per un grandioso viaggio visivo attraverso il mondo antico, un affresco che sembra dipinto non su tela ma su interi ettari di terreno. L'eruzione dell'Etna, la ricostruzione di Cartagine, l'assedio di Siracusa con gli specchi ustori di Archimede: ogni sequenza è concepita per sopraffare, per sbalordire. Più che un film, Cabiria è un'esperienza da Grand Tour, un viaggio nel tempo orchestrato con una perizia scenografica che lascia ancora oggi senza fiato. Le scenografie di Camillo Innocenti e Luigi Romano Borgnetto non sono semplici sfondi, ma protagonisti. Il tempio di Moloch, in particolare, è una delle creazioni più terrificanti e iconiche della storia del cinema: una divinità mostruosa e cava, con le fauci spalancate pronte a inghiottire vittime umane gettate nel fuoco. È un'immagine che sembra partorita da un incubo di Füssli, un'eco delle visioni infernali di Gustave Doré, una prefigurazione delle architetture oppressive dell'espressionismo tedesco.

In questo teatro del mondo si muovono figure archetipiche, più maschere che personaggi. C'è la fanciulla perseguitata Cabiria, l'eroe romano Fulvio Axilla, la regina tragica e sensuale Sofonisba. Ma la vera, inaspettata deflagrazione è Maciste. Interpretato da Bartolomeo Pagano, un ex scaricatore di porto di Genova, Maciste è lo schiavo numida di Fulvio, un concentrato di forza bruta e lealtà canina. Non era previsto che diventasse il fulcro emotivo del film, eppure la sua presenza fisica, la sua ingenua bontà e la sua potenza muscolare lo trasformarono immediatamente in un'icona. Maciste è il progenitore di un'intera stirpe di eroi del cinema: da Conan il Barbaro a John Rambo, è l'archetipo dell'uomo forte che risolve i problemi con la violenza ma è mosso da un codice d'onore elementare. Il suo successo fu tale che il personaggio sopravvisse al film, diventando protagonista di una serie infinita di pellicole e dando di fatto il via al genere "peplum" all'italiana, decenni prima di Steve Reeves.

Dal punto di vista tematico, Cabiria è un distillato purissimo della sua epoca. Incarna l'ideologia nazionalista e l'estetismo dannunziano che pervadevano l'Italia pre-bellica. Il film mette in scena un conflitto manicheo tra la virtus romana – stoica, ordinata, civilizzatrice – e la barbarie cartaginese – decadente, crudele, superstiziosa. È una visione della storia che oggi appare schematica, ma che va letta come la proiezione mitologica delle ambizioni e delle ansie di una nazione giovane, protesa verso un futuro imperiale sognato attraverso le glorie del passato. Ma al di là di ogni lettura politica, ciò che resta è una profonda riflessione sulla caducità delle civiltà e sulla persistenza del mito. La visione di Pastrone è operistica, wagneriana: i suoi personaggi sono travolti da un destino più grande di loro, pedine in uno scontro cosmico tra forze opposte.

Forse, il paragone più calzante per Cabiria non è con altri film, ma con la pittura accademica e orientalista del tardo Ottocento, quella di un Jean-Léon Gérôme o di un Lawrence Alma-Tadema. Come quei pittori, Pastrone ricostruisce il passato con una meticolosità archeologica quasi feticista, ma lo infonde di un pathos e di un senso del melodramma squisitamente moderni. Le sue inquadrature sono quadri viventi, composizioni monumentali in cui le masse umane si muovono come elementi di un disegno più grande. C'è una rigidità, una staticità in questa visione che può apparire datata, ma è la rigidità solenne del rito, non la goffaggine dell'inesperienza.

Visto a oltre un secolo di distanza, Cabiria è un monolite nero piantato agli albori della storia del cinema. È un'opera che contiene in sé il DNA di innumerevoli generi a venire: l'epico storico, il film d'avventura, il blockbuster ad alto budget. È la dimostrazione che, fin dalle sue origini, il cinema ha posseduto una vocazione demiurgica: quella di non limitarsi a riprodurre il mondo, ma di crearne di nuovi, più vasti, più terribili e più magnifici di quello reale. È il sogno di un impero fatto di luce e ombra, un sogno così potente da influenzare ancora oggi il modo in cui immaginiamo la grandezza sul grande schermo.

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