Cleo dalle 5 alle 7
1962
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Regista
Un orologio non misura il tempo; misura la nostra ossessione per esso. Novanta minuti, un'ora e mezza, possono essere un'inezia o un'eternità. Per Florence, che si fa chiamare Cléo Victoire, sono l'esatta, crudele durata di un'apocalisse personale. Agnès Varda, con la precisione di un orologiaio esistenzialista e l'anima di una poetessa di strada, non si limita a filmare questo intervallo di attesa, ma lo scolpisce, lo dilata, lo contrae, trasformando Cléo dalle 5 alle 7 in un sismografo dell'anima che registra ogni scossa di un'identità in frantumi. Il film è un capolavoro di umanità cronometrata, un'elegia alla fragilità che si finge spettacolo.
All'inizio, Cléo è un'immagine, un costrutto. Una bambola bionda, una cantante yé-yé di moderato successo, un corpo da esibire, un volto su cui proiettare desideri. È definita interamente dallo sguardo altrui: quello del suo amante assente e paternalistico, che la chiama "la mia piccola perla"; quello della sua governante premurosa ma soffocante; quello degli sconosciuti per strada, che la riconoscono e la consumano con gli occhi. Varda orchestra una sinfonia di specchi e vetrine, superfici riflettenti in cui Cléo cerca costantemente la propria effigie, non per vanità, ma per disperata rassicurazione. La sequenza nel negozio di cappelli è un saggio di semiotica cinematografica: ogni cappello è una maschera, un'identità potenziale da indossare per nascondere il terrore nudo della mortalità. Cléo non si sta guardando, sta verificando di esistere ancora. È l'incarnazione perfetta del concetto sartriano de "Le Regard", lo Sguardo dell'Altro che ci oggettifica, che ci ruba il nostro essere-per-noi-stessi per trasformarci in un essere-per-altri. Finché una diagnosi di cancro non pende sulla sua testa come una ghigliottina, questa condizione le è sufficiente. Ora, non più.
Il suo peregrinare per Parigi, che occupa il cuore pulsante del film, è una discesa nel mondo reale che assomiglia in modo perturbante a una pagina di Virginia Woolf. Se La signora Dalloway trasformava una passeggiata per le vie di Londra in una mappa della coscienza, Varda fa lo stesso con Cléo e la Parigi del 1961. Ma laddove Woolf sondava il passato, Varda filma un presente assoluto, quasi documentaristico. La sua Parigi non è la cartolina romantica della Hollywood sul Rodano; è un organismo brulicante, cacofonico, indifferente. È la Parigi della Guerra d'Algeria, le cui notizie filtrano dalle radio dei caffè, un memento mori collettivo che fa da contraltare alla paura privata di Cléo. Artisti di strada che ingoiano rane, fattorini che corrono, coppie che litigano: la vita continua, assurda e magnifica, mentre lei si sente già un fantasma. Questa commistione tra il dramma interiore, quasi solipsistico, e la tecnica del cinéma-vérité è il colpo di genio di Varda, che eleva il film al di sopra dei suoi contemporanei della Nouvelle Vague. Mentre Godard decostruiva il linguaggio cinematografico con cinismo intellettuale e Truffaut lo riempiva di nostalgia lirica, Varda lo usava come uno strumento di empatia radicale.
Il film, con la sua struttura temporale rigorosa, potrebbe essere visto come un antenato spirituale di opere come Lola corre di Tom Tykwer, ma dove Tykwer gioca con le possibilità del destino, Varda si concentra sull'ineluttabilità della condizione umana. C'è un solo percorso, quello in avanti, verso le sette di sera. E in questo percorso, Cléo deve spogliarsi. Letteralmente e metaforicamente. Il momento catartico arriva quando, nel suo appartamento, si toglie la vistosa parrucca bionda, rivelando i suoi capelli corti e scuri. È un gesto di resa e, insieme, di liberazione. Subito dopo, canta "Sans Toi", una canzone malinconica e straziante. Davanti ai suoi parolieri (tra cui un giovane Michel Legrand, autore della sublime colonna sonora), la sua performance non è più quella della poupée qui chante. È il suo vero io che emerge, un lamento che trasforma l'artificio in arte pura. Da quel momento, Cléo smette di essere guardata e inizia a guardare.
Questa inversione della dinamica dello sguardo è fondamentale. Il suo cammino la porta in un cinema, dove assiste a un cortometraggio comico e surreale (un piccolo gioiello meta-testuale con Jean-Luc Godard e Anna Karina che scherzano sulla morte e sugli occhiali scuri). È la Nouvelle Vague che fa l'occhiolino a se stessa, un'interruzione brechtiana che ci ricorda la finzione del cinema, ma che, per paradosso, amplifica la realtà emotiva di Cléo. Uscita dalla sala buia, la sua percezione del mondo è cambiata. Non cerca più il suo riflesso; osserva i volti, i dettagli, le storie silenziose della città. È diventata una flâneuse, un'esploratrice urbana nel senso più baudelairiano del termine, ma con una sensibilità squisitamente femminile.
L'incontro finale nel Parc Montsouris con Antoine, un soldato in licenza che sta per partire per l'Algeria, è la conclusione perfetta di questo viaggio trasformativo. È l'incontro di due solitudini che si fronteggiano con la morte. Lui, con la morte violenta e insensata della guerra; lei, con la morte biologica e intima della malattia. Per la prima volta, Cléo non è un oggetto di desiderio o di compassione. È una persona. Antoine non la conosce come "Cléo Victoire", la cantante. La vede per quello che è: una donna spaventata che sta imparando a essere coraggiosa. La loro conversazione è priva di artifici, un dialogo tra due anime nude che anticipa di trent'anni la chimica errante di Richard Linklater in Prima dell'alba. Non c'è seduzione, solo connessione. Lui le offre la sua compagnia, il suo tempo, e in questo scambio disinteressato, Cléo trova una pace che né gli amanti né gli specchi potevano darle. Le insegna a vedere la bellezza in un salice piangente, a trovare un significato nel semplice atto di camminare insieme.
Quando finalmente arrivano all'ospedale Pitié-Salpêtrière per il verdetto, il risultato quasi non conta più. "Mi sembra di non avere più paura", dice lei. La diagnosi, che il dottore comunica frettolosamente prima di andarsene, è quasi un'informazione accessoria. In quei novanta minuti, Cléo è passata dall'essere un oggetto terrorizzato dalla propria fine all'essere un soggetto che ha imparato ad abitare il proprio presente. Ha attraversato il suo personale "giardino dei sentieri che si biforcano", per citare Borges, e ha scelto l'unico sentiero possibile: quello della consapevolezza.
Cléo dalle 5 alle 7 non è semplicemente un film sulla paura della morte. È un film su come si impara a vivere. È un trattato femminista scritto prima che il femminismo della seconda ondata avesse il suo lessico. È un documento storico di una Parigi che non esiste più. Ma soprattutto, è cinema puro, un'opera in cui il tempo dell'orologio e il tempo dell'anima coincidono perfettamente, lasciandoci con la sensazione profonda e incancellabile di aver assistito non alla cronaca di una morte annunciata, ma alla cronaca di una nascita. Una nascita alla vita vera, che inizia proprio quando si accetta la possibilità della sua fine. E questo, più di ogni altra cosa, è il marchio di un capolavoro immortale.
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