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Cronaca di un amore

1950

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Con un gesto che ha del sismico, Michelangelo Antonioni, al suo esordio nel lungometraggio, non si limita a girare un film: scardina una porta. E dietro quella porta non c’è l’Italia dolente e magnanima del Neorealismo, non ci sono le biciclette rubate o i bambini che lustrano le scarpe ai soldati americani. C'è un salotto borghese, freddo come una camera mortuaria, avvolto in un silenzio denso e carico di cose non dette. Cronaca di un amore (1950) è il punto di rottura, il momento in cui il cinema italiano smette di guardare alle macerie fisiche della guerra e inizia a indagare le rovine morali di chi quella guerra l’ha vinta, o almeno vi è sopravvissuto abbastanza da potersi permettere il lusso della noia e del tradimento. È l’atto di nascita di un cinema nuovo, che sposta l’obiettivo dalla pancia vuota allo spirito inaridito.

La struttura è quella di un noir, quasi un calco sbiadito e trasferito dalle umide strade di Los Angeles alle nebbie della Pianura Padana. C’è l’industriale ricco e anziano (Enrico Fontana), la moglie giovane e bellissima (una Lucia Bosè di una bellezza quasi astratta, ieratica), e un’indagine privata che, come nel più classico dei meccanismi chandleriani, scoperchia un passato torbido. L’investigatore, però, è una figura quasi comica nella sua mediocrità, un ingranaggio burocratico che serve solo ad avviare la reazione a catena. Il vero centro del dramma è il ritorno di Guido (un Massimo Girotti che si porta addosso il peso di un'intera generazione), l'amante di un tempo. Ma se in un film di Billy Wilder o di Robert Siodmak questo sarebbe il prologo di un piano criminale teso e febbrile, in Antonioni diventa la cronaca di un'implosione. Il delitto è un’ipotesi, un fantasma evocato più per disperazione che per cupidigia, un tentativo estremo di dare una forma, una narrazione, a un amore che è esso stesso un fantasma.

Antonioni prende l'impalcatura del noir americano e la svuota dall'interno. Gli toglie il motore narrativo, l'urgenza, la suspense. Al loro posto, installa il tempo morto, l'attesa, lo sguardo. Il vero mistero non è la morte sospetta di una ragazza avvenuta anni prima, ma l'impenetrabile abisso che separa i due amanti, anche quando sono stretti in un abbraccio. La loro passione non è quella carnale e disperata di Gino e Giovanna in Ossessione di Visconti – altro archetipo del noir padano – ma una malattia dell'anima, un'eco, un disperato tentativo di rivivere un'emozione che forse non è mai stata così pura come la ricordano. In questo, il film è incredibilmente vicino alla sensibilità letteraria di un Cesare Pavese, alla sua esplorazione del ritorno e dell'impossibilità di colmare il vuoto lasciato dal tempo. Paola e Guido sono personaggi pavesiani intrappolati in una trama di James M. Cain.

La vera rivoluzione di Antonioni, però, è visiva. Il celeberrimo piano-sequenza iniziale, che segue la Bosè attraverso gli sfarzosi ma anonimi ambienti della sua villa, è una dichiarazione d’intenti. La macchina da presa non è più al servizio della storia, ma diventa un occhio analitico, un bisturi che seziona lo spazio e il tempo per rivelare il vuoto che contengono. Antonioni filma gli ambienti non come semplici sfondi, ma come protagonisti, come correlativi oggettivi dello stato interiore dei personaggi. La Milano della ricostruzione, con le sue architetture razionaliste, i suoi palazzi moderni e le sue periferie industriali, non è il simbolo del "miracolo economico" nascente, ma una gabbia di vetro e cemento, un labirinto di linee rette che imprigiona esistenze oblique.

Quando la narrazione si sposta a Ferrara, la città del passato, l'atmosfera cambia. La nebbia avvolge ogni cosa, dissolve i contorni, rende i luoghi spettrali. È una nebbia fisica ma soprattutto esistenziale. Le architetture milanesi si trasformano in piazze d'Italia dechirichiane, spazi metafisici carichi di un'attesa angosciante. In queste sequenze, Antonioni si rivela non solo un narratore, ma un urbanista dell'anima, un architetto della nevrosi. Usa la profondità di campo non per includere più azione, ma per mostrare la distanza incolmabile tra le figure umane, spesso relegate ai margini dell'inquadratura, schiacciate dal peso del paesaggio. I suoi personaggi non abitano lo spazio, ne sono abitati, posseduti.

Il dialogo stesso subisce una trasformazione. Le parole sono spesso menzognere, evasive, o peggio, inutili. Servono a mascherare, non a rivelare. Il vero dramma si consuma nei silenzi, negli sguardi persi nel vuoto, nei gesti interrotti. Quando Paola dice a Guido "Non so perché sono venuta", sta riassumendo l'intera poetica del regista. I personaggi di Antonioni agiscono spinti da un'inerzia esistenziale, da un impulso che non comprendono appieno, cercando un senso che continua a sfuggirgli. È un cinema che filma il pensiero, o meglio, l'incapacità di formulare un pensiero coerente.

La performance di Lucia Bosè è fondamentale. Antonioni la spoglia di ogni vezzo da diva e la trasforma in un'icona di algida e disperata bellezza. Il suo volto è una maschera magnifica su cui si proiettano le ansie e i desideri degli altri, ma il cui mondo interiore rimane inaccessibile. Non è la classica femme fatale che tesse la sua tela con calcolo e seduzione; è piuttosto una vittima della sua stessa passività, una donna che si lascia trascinare dagli eventi perché agire richiederebbe una volontà che non possiede più. La sua eleganza, i suoi abiti impeccabili, sono l'armatura che indossa per nascondere un vuoto cosmico.

Il finale è di una crudeltà sublime e beffarda. Il destino, o il caso, interviene a risolvere la situazione in un modo che rende il loro piano omicida non solo superfluo, ma patetico. L'incidente d'auto del marito priva i due amanti persino della catarsi del delitto. Non sono né eroi tragici né diabolici assassini; sono solo due persone che hanno giocato con il fuoco e si ritrovano con un pugno di cenere. La fuga finale di Guido, mentre Paola lo chiama da una finestra, è l'immagine perfetta della dissoluzione. Non c'è punizione, non c'è redenzione. C'è solo l'evaporazione di un sentimento, l'accettazione di una sconfitta che non è nemmeno stata combattuta. È la cronaca non di un amore, ma della sua impossibilità nell'era moderna.

Con questo film, Antonioni ha di fatto scritto il primo capitolo di quel grande romanzo cinematografico sull'incomunicabilità e l'alienazione che avrebbe poi sviluppato nei capolavori degli anni Sessanta. Cronaca di un amore sta a L'avventura come i romanzi giovanili di Flaubert stanno a Madame Bovary: contiene già tutto il DNA, tutta la visione del mondo, ma con una struttura ancora legata a convenzioni di genere che l'autore sta visibilmente cercando di far esplodere. È un'opera di transizione, certo, ma le opere di transizione sono spesso le più affascinanti, perché ci mostrano il genio nel suo farsi, nell'atto stesso di rompere le catene e spiccare il volo verso un territorio inesplorato. È il rumore di un mondo che cambia, catturato non nelle piazze o nelle fabbriche, ma nel fruscio di un abito di seta in una stanza troppo grande e troppo silenziosa.

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