Cronache di un'estate
1961
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Registi
Puntare una macchina da presa su un essere umano e chiedergli "Sei felice?" è un atto di una violenza e di una delicatezza inaudite. È un gesto che può essere scambiato per ingenuità sociologica, ma che in realtà nasconde la crudeltà di un esperimento alchemico: trasformare il piombo dell'esistenza quotidiana nell'oro, effimero e instabile, della verità. "Cronache di un'estate", l'artefatto anomalo e pulsante concepito dall'etnologo Jean Rouch e dal sociologo Edgar Morin nell'estate parigina del 1960, non è un documentario. È un sismografo dell'anima, un'inchiesta filosofica mascherata da film, un safari antropologico tra le tribù dell'asfalto parigino condotto da due stregoni che non hanno paura di mostrare i propri trucchi.
Il cinema, in quel preciso tornante della storia, stava vivendo la sua più grande rivoluzione dai tempi del sonoro. A pochi isolati di distanza, i giovani turchi della Nouvelle Vague – Godard, Truffaut, Chabrol – stavano smontando la grammatica del cinema classico con la stessa gioiosa irruenza con cui si svaligia una banca. Usavano attori non professionisti, giravano per strada con camere a mano e infrangevano ogni regola di montaggio per inseguire una nuova forma di realismo. Rouch e Morin, però, compiono un'operazione speculare e, per certi versi, ancora più radicale. Se la Nouvelle Vague usava la finzione per simulare la vita, loro usano la vita per interrogare la finzione. La domanda che aleggia su ogni fotogramma non è solo "Sei felice?", ma una ben più vertiginosa e meta-testuale: "È possibile filmare la verità?".
Per farlo, si armano di una tecnologia che è essa stessa un manifesto poetico: una cinepresa a 16mm Coutant-Mathot, prototipo leggerissimo, e il registratore audio Nagra, che per la prima volta permetteva un suono in presa diretta sincronizzato senza la goffaggine delle apparecchiature da studio. Questa liberazione tecnologica permette loro di pedinare i loro personaggi, di seguirli dal lavoro alla vita privata, di catturare conversazioni in un caffè o sfoghi solitari. Il risultato è un cinema che respira, che inciampa, che vive in simbiosi con i suoi soggetti. È l'atto di nascita ufficiale del cinéma-vérité, un'etichetta che Rouch stesso preferiva a quella americana di Direct Cinema. La differenza non è banale: se i colleghi d'oltreoceano come Pennebaker o i fratelli Maysles cercavano di essere una "mosca sul muro" (fly on the wall), invisibile e oggettiva, Rouch e Morin sono orgogliosamente una "mosca nella minestra" (fly in the soup). Provocano, intervengono, stimolano la crisi. La loro non è un'osservazione passiva, ma una maieutica socratica per immagini.
La Parigi che emerge non è la città da cartolina dei musical hollywoodiani, né quella romantica e cinefila dei Cahiers du cinéma. È una città fantasma, percorsa da spettri. Lo spettro più ingombrante è quello della Guerra d'Algeria, un conflitto sporco e rimosso che serpeggia nelle conversazioni, nelle paure dei giovani chiamati alle armi, nella tensione politica che si taglia con il coltello. Ma ci sono spettri ancora più antichi. Quando Marceline Loridan, una delle protagoniste, cammina da sola per una Place de la Concorde deserta all'alba, la sua voce fuori campo rievoca il padre deportato ad Auschwitz. Il numero tatuato sul suo braccio, che la camera non teme di inquadrare, diventa un buco nero che risucchia tutta la leggerezza estiva, un palinsesto di dolore incancellabile sotto la pelle della modernità. In quella sequenza, il film trascende la sociologia e diventa una meditazione sulla memoria che ricorda le peregrinazioni letterarie di W.G. Sebald, dove il paesaggio contemporaneo è infestato dalle tracce invisibili della catastrofe storica.
Il cast di "non-attori" è un campionario umano di una potenza disarmante. C'è Angelo, operaio della Renault, la cui descrizione del lavoro alienante in fabbrica anticipa di un decennio le lotte operaie e l'analisi della parcellizzazione del lavoro. C'è Marilù, l'impiegata italiana tormentata da un senso di colpa e inadeguatezza che sembra uscita da un romanzo di Pavese o da un film di Antonioni, un'anima persa nel deserto dei sentimenti della metropoli. Ci sono gli studenti africani che discutono di razzismo con una lucidità spietata, smascherando l'ipocrisia del colonialismo francese proprio mentre questo sta vivendo i suoi ultimi, sanguinosi, capitoli. Ognuno di loro, messo di fronte alla domanda iniziale, non risponde mai in modo semplice. La felicità si rivela essere un concetto fragile, borghese, quasi osceno di fronte alla fatica di vivere, all'ingiustizia politica, al peso della storia.
Ma il vero colpo di genio, il momento in cui "Cronache di un'estate" si avvita su se stesso come un nastro di Möbius, è nel finale. Rouch e Morin decidono di mostrare il film montato ai suoi stessi protagonisti. La reazione è esplosiva. C'è chi si sente tradito, chi si vede come in uno specchio deformante, chi accusa i registi di aver manipolato la realtà. Marilù, in lacrime, si sente "messa a nudo" e giudicata. La presunta verità catturata dalla macchina da presa si frantuma in mille soggettività. Questo finale è una delle più straordinarie riflessioni sul potere e sulla responsabilità dello sguardo cinematografico mai realizzate. Il film divora la sua stessa coda, diventando un Ouroboros su celluloide. L'esperimento non è più solo sui parigini, ma sul cinema stesso. Mettendo in scena il "processo" al loro stesso lavoro, Rouch e Morin firmano un atto di onestà intellettuale quasi senza precedenti, ammettendo che ogni documentario è, in fin dei conti, una costruzione, un punto di vista, una finzione del reale.
Visto oggi, "Cronache di un'estate" è un documento straordinario che funziona su più livelli. È un reperto storico di una società in bilico tra il boom economico del dopoguerra e le inquietudini che esploderanno nel Maggio '68. È un saggio di antropologia urbana che studia i riti, le nevrosi e i sogni della tribù parigina. Ma soprattutto, è un'opera d'avanguardia che pone questioni epistemologiche ancora oggi irrisolte. In un'epoca di reality show, di social media e di infinita auto-narrazione performativa, la domanda di Rouch e Morin – "Come si comporta un uomo davanti a una cinepresa?" – risuona con una forza profetica. La loro conclusione, sussurrata mentre camminano per le sale del Musée de l'Homme dopo la proiezione-dibattito, è tanto amara quanto lucida: forse hanno fallito nel catturare la verità, ma hanno senza dubbio creato un film. E in questo apparente fallimento si cela il suo trionfo più grande: aver dimostrato che il cinema non è uno specchio del mondo, ma un martello con cui forgiarlo, uno strumento per porre domande scomode, per rendere visibile l'invisibile, per trasformare una semplice estate in un'indagine senza tempo sulla condizione umana.
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