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Io la conoscevo bene

1965

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Il titolo più beffardo, crudele e definitivo della storia del cinema. Tre parole che non sono una constatazione, ma un’epigrafe tombale incisa da uno scalpello intriso di sarcasmo. Nessuno, in realtà, conosceva bene Adriana Astarelli. Nemmeno lei stessa. Antonio Pietrangeli, con la complicità di due architetti della parola come Ettore Scola e Ruggero Maccari, non ci consegna il ritratto di una donna, ma la radiografia di un’assenza. Un vuoto pneumatico travestito da commedia all'italiana, un buco nero gravitazionale che risucchia la luce abbagliante del Miracolo Economico per rivelarne la natura ultima di oscurità e gelo.

Se La Dolce Vita di Fellini è l'affresco monumentale e barocco della festa, Io la conoscevo bene è il risveglio amaro del giorno dopo, nella stanza ancora impregnata di fumo stantio e sogni infranti. Non c'è Marcello Rubini a filosofeggiare sulla propria decadenza; c'è solo lo sguardo vacuo e infinitamente malleabile di una Stefania Sandrelli stratosferica, sineddoche vivente di un'intera generazione di provincia catapultata nella centrifuga spietata della modernità romana. Adriana non è un personaggio nel senso Flaubertiano del termine, non ha un arco di trasformazione. È piuttosto un frattale, un pattern di passività che si ripete in un'infinita serie di incontri-specchio. La sua è una narrazione non-lineare, un carosello di episodi che assomiglia più a un album di fotografie sfogliato a caso che a un romanzo di formazione. Pietrangeli demolisce la struttura aristotelica e costruisce il suo film come un collage cubista o una sequenza di sketch del teatro dell'assurdo. Ogni uomo, ogni lavoro, ogni appartamento è una stazione di una Via Crucis laica e inconsapevole, dove la croce non è il peccato ma la totale, disarmante mancanza di significato.

Adriana è la nostra Emma Bovary dell'era dei fotoromanzi e del juke-box. Come l'eroina di Flaubert, è divorata da un desiderio indefinito, nutrito dai surrogati culturali che la società del consumo le offre a piene mani. Ma se Emma si ribellava attivamente alla noia della sua condizione, Adriana vi galleggia dentro con una rassegnazione quasi sonnambolica. Si modella sui desideri altrui, cambia acconciatura, abito e persino accento con la stessa facilità con cui si cambia un disco sul giradischi. È uno schermo bianco su cui l'universo maschile che la circonda proietta le proprie mediocri fantasie: la ragazzina ingenua, la bellezza da esibire, l'oggetto sessuale, l'aspirante attrice senza talento. In questo, il film di Pietrangeli anticipa di decenni le riflessioni sul "male gaze" e diventa un testo fondamentale sulla reificazione del corpo femminile. La macchina da presa la pedina, la scruta, la incornicia, ma raramente penetra la sua superficie. Siamo complici di chi la guarda, non di chi la vive. È un’operazione meta-cinematografica di una lucidità spietata: noi spettatori, come i personaggi del film, crediamo di conoscerla, ma ne stiamo solo consumando l'immagine.

Questa sua trasformazione in pura merce trova un'analogia quasi inquietante con la Pop Art di Andy Warhol. Adriana è una Marilyn Monroe de noantri, una serigrafia umana riprodotta all'infinito in contesti diversi ma sempre identica nella sua essenza vuota. La sua tragedia è quella della superficie che ha divorato la profondità. I dialoghi sono capolavori di incomunicabilità. Personaggi come il pugile suonato interpretato da Nino Manfredi o il divo velleitario di Ugo Tognazzi non dialogano con lei, le riversano addosso monologhi, tic, frustrazioni. Lei ascolta, annuisce, sorride. È un satellite che orbita attorno a pianeti egoisti, riflettendone la luce senza averne una propria. La sua bontà d'animo, la sua ingenuità, non sono virtù ma sintomi di una radicale incapacità di opporre un "Io" al mondo che la vuole "Altro".

Il genio di Pietrangeli sta nell'aver innestato questa tragedia esistenzialista nel corpo della commedia. Il film è punteggiato da momenti esilaranti, da battute fulminanti, da caratterizzazioni grottesche che appartengono al miglior DNA della commedia all'italiana. Ma ogni risata si congela in gola, lasciando un retrogusto di cenere. È lo stesso meccanismo che Billy Wilder aveva perfezionato in L'appartamento, dove l'umorismo non serve a stemperare il dramma, ma a renderlo ancora più acuto e insopportabile per contrasto. La festa a casa dell'attore, con Tognazzi che si esibisce in una patetica imitazione, è una scena comica di una tristezza abissale, un piccolo capolavoro di scrittura che racchiude l'intero senso del film.

E poi c'è l'uso del sonoro, una delle più intelligenti operazioni di contrappunto nella storia del cinema. La colonna sonora non è extra-diegetica, non commenta l'azione dall'esterno. È quasi interamente diegetica: le canzoni del momento (Mina, Peppino di Capri, Ornella Vanoni) escono dalle radio, dai juke-box, dalle televisioni. Sono il rumore di fondo, l'inquinamento acustico dell'ottimismo di massa che tenta di soffocare il silenzio interiore di Adriana. Il pop martellante e spensierato, con i suoi testi d'amore banali e le sue melodie contagiose, diventa la colonna sonora del nulla. Il chiasmo tra la leggerezza delle canzonette e la pesantezza del vivere è la chiave di volta estetica e concettuale dell'opera. Quel giradischi che continua a suonare "Toi" di Gilbert Bécaud nella scena finale, mentre Adriana compie il suo ultimo, metodico gesto, è una delle trovate più agghiaccianti e potenti mai concepite. È il suono della società che continua a ballare, indifferente, mentre uno dei suoi figli si spegne.

Io la conoscevo bene è un film che respira la stessa aria di opere come Vivere la propria vita di Godard o Cléo dalle 5 alle 7 di Varda, ma la declina con una sensibilità unicamente italiana, più carnale, più disperata, meno intellettualistica. È l'altra faccia del boom, la storia di chi è stato travolto dall'onda del progresso anziché cavalcarla. Adriana non è una vittima di un singolo carnefice, ma di un sistema, di una cultura, di un'epoca che ha scambiato il benessere per la felicità e l'immagine per l'identità. Il suo suicidio non è un colpo di scena melodrammatico, ma l'unica, terribile, epifania negativa possibile. È l'atto finale di un soggetto che, non essendo mai riuscito a definirsi, sceglie di annullarsi. Un gesto di estrema lucidità nel cuore di una vita passata in uno stato di dormiveglia. Un film che fa male come una verità taciuta troppo a lungo e che, a ogni visione, conferma la sua dolorosa, inappellabile statura di capolavoro. Nessuno l'ha conosciuta, ma la sua assenza, dopo quella dissolvenza in nero, continua a interrogarci con la potenza di un classico senza tempo.

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