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Jeanne Dielman, 23 Commerce Quay, 1080 Brussels

1975

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L'opera monumentale di Chantal Akerman del 1975, girata quando la regista aveva solo 25 anni, è un atto di una audacia e di un rigore quasi inconcepibili. Per tre ore e venti minuti, ci chiede di fare una cosa sola: guardare. Guardare una donna che rifà un letto, che prepara un polpettone, che lucida le scarpe del figlio, che sbuccia le patate. E in questo atto di osservazione paziente e quasi voyeuristica, Akerman costruisce uno dei più potenti e devastanti trattati sulla condizione femminile, sull'alienazione e sulla violenza latente che si nasconde sotto la superficie della routine borghese. È un capolavoro assoluto, la cui recente incoronazione a "miglior film di tutti i tempi" dalla critica internazionale non è un'iperbole, ma il giusto riconoscimento di un'opera che ha anticipato di decenni le conversazioni sull'arte, il femminismo e il linguaggio del cinema.

Nelle mani della regista belga Chantal Akerman, la fatica del lavoro femminile e la prostituzione non sono poi così lontane l'una dall'altra; ogni rigorosa faccenda domestica svolta quasi in tempo reale e ogni appuntamento pomeridiano a pagamento che vediamo compiere alla protagonista, la vedova Jeanne Dielman (un'interpretazione leggendaria di Delphine Seyrig), avvicinano lo spettatore all'inevitabile crepa nella sua facciata impeccabile. Il film è sia un trionfo del cinema strutturalista che una straordinaria denuncia dei ruoli di genere nella società. E sì, guardare qualcuno che sbuccia le patate per cinque, interminabili minuti non è mai stato così avvincente, perché in quel gesto Akerman racchiude un intero universo di repressione e di ordine precario.

Il film è la decostruzione più radicale del concetto di Kammerspiel, o dramma da camera. L'azione è confinata quasi interamente nell'appartamento di Jeanne, un luogo che si trasforma da nido a prigione sotto i nostri occhi. Ma è un Kammerspiel denudato di ogni criticità dialogica. A differenza dei drammi di Bergman o Strindberg, qui il conflitto non è nelle parole. I dialoghi sono scarni, funzionali, quasi privi di emozione. Il vero dramma è nel gesto, nel rituale, e soprattutto, nella sua impercettibile disintegrazione. La macchina da presa di Akerman è quasi sempre statica, fissa, posizionata a un'altezza media che osserva Jeanne con una distanza clinica, quasi scientifica. Lei entra ed esce dall'inquadratura, un'inquadratura che rimane impassibile, definendo lo spazio architettonico della sua esistenza. Questa scelta estetica non è casuale. È un'immersione nell'arte Minimalista e concettuale degli anni '70. Come un'opera di Donald Judd, il film si concentra sulla forma, sullo spazio e sulla durata. Come in un film durational di Andy Warhol, l'atto di guardare a lungo un'azione banale la carica di un significato nuovo e profondo.

È proprio in questa estetica del tempo reale che il film si impose all'attenzione della critica, che lo osannò come uno dei più belli di ogni tempo. La scelta più rivoluzionaria di Akerman è quella di dedicare lo stesso tempo e la stessa attenzione registica a ogni azione di Jeanne. Il tempo che impiega per preparare il caffè è lo stesso che impiega per ricevere un cliente. In questo modo, compie un'operazione politica potentissima: equipara il lavoro domestico e il lavoro sessuale. Entrambi sono mostrati come dei "lavori", dei compiti da eseguire con precisione meccanica e senza coinvolgimento emotivo per garantire la sopravvivenza economica e l'ordine della casa. La prostituzione non è un atto di trasgressione o di passione, ma semplicemente un'altra voce nell'agenda della sua giornata, incastrata tra la spesa e la preparazione della cena. Questa è la tesi femminista più radicale del film: il lavoro invisibile e non retribuito della casalinga e il lavoro sessuale a pagamento sono due facce della stessa medaglia, due forme di alienazione del corpo femminile al servizio di un ordine patriarcale.

L'influenza di questo film è immensa, sebbene spesso sotterranea. È un'opera che ha aperto la strada a un intero filone di slow cinema, influenzando registi che lavorano con la durata e l'osservazione, da Gus Van Sant a Kelly Reichardt. Se si cercano parallelismi nel cinema belga, Akerman rimane una figura quasi unica, più legata all'avanguardia internazionale di New York (dove visse e fu influenzata da cineasti come Michael Snow) che a una specifica scuola nazionale. La sua eredità è trasversale, ed è quella di aver dimostrato che si può fare un cinema politico non attraverso i contenuti espliciti (slogan, discorsi), ma attraverso la forma. La vera politica del film è nella sua ostinata, rivoluzionaria lentezza. Ci costringe a fare esperienza del tempo di Jeanne, della sua noia, della sua oppressione.

Il film segue tre giorni nella vita di Jeanne. I primi due sono un'esibizione di controllo perfetto. Tutto è al suo posto, ogni gesto è calcolato. Ma il secondo giorno, qualcosa inizia a incrinarsi. Le patate sono troppo cotte. Il caffè è amaro. Un bottone salta. Sono piccoli incidenti, quasi impercettibili, ma in un universo così rigidamente ordinato, ogni anomalia è un presagio di catastrofe. Il terzo giorno, l'ordine collassa. Durante l'incontro con il cliente, per la prima volta, Jeanne sperimenta un orgasmo. Questo atto involontario di piacere è la crepa definitiva, l'intrusione del caos e del sentimento in un rituale che doveva essere puramente meccanico. La sua reazione è immediata, fredda e terrificante. Si riveste, prende un paio di forbici dal suo tavolo da lavoro e uccide l'uomo. Non è un delitto passionale. È un atto di restaurazione. È il tentativo disperato di eliminare la fonte del disordine, di silenziare la perturbazione che ha mandato in frantumi il suo mondo. La lunga, immobile inquadratura finale, con Jeanne seduta al tavolo da pranzo nell'oscurità, con una striscia di luce che la illumina, è una delle immagini più indelebili della storia del cinema. È il ritratto di una donna che, per preservare l'ordine della sua vita, ha dovuto distruggerla. È un'opera che non si dimentica. Mai.

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