Kwaidan - Storie di fantasmi
1965
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Regista
Dimenticate il cinema come finestra sul mondo. Dimenticate la mimesi, l’illusione di realtà che ha ossessionato la settima arte fin dai suoi vagiti. Masaki Kobayashi, il maestro del dramma umanista e della critica sociale feroce con opere come Harakiri o la monumentale trilogia de La condizione umana, con Kwaidan compie un’abiura radicale e si immerge in un universo dove la cinepresa non è più un occhio, ma un pennello. Questo non è un film dell'orrore nel senso viscerale e adrenalinico a cui ci ha abituato l'Occidente; è un’ipnosi estetica, una seduta spiritica condotta in un museo d'arte, dove i fantasmi sono composti della stessa materia dei sogni: colore puro, suono distillato e silenzio agghiacciante.
Girato in colossali teatri di posa (l'hangar di un ex aeroporto, per la precisione), il film è una delle più sontuose e deliberate costruzioni anti-naturalistiche della storia del cinema. I fondali, tele immense dipinte a mano che raffigurano cieli apocalittici, foreste spettrali e orizzonti innaturali, non cercano mai di ingannare lo spettatore. Al contrario, ne esibiscono la sublime artificialità. Siamo più vicini a un emakimono, un antico rotolo narrativo illustrato, che prende vita, o a una scenografia del teatro Nō o Kabuki, dove ogni gesto è codificato e ogni elemento visivo è un simbolo. Kobayashi non vuole mostrarci il Giappone feudale com'era, ma come è stato sognato, temuto e raccontato per secoli. Il film diventa così un'archeologia della paura, un'immersione nell'inconscio collettivo giapponese filtrato attraverso lo sguardo di un esule, lo scrittore greco-irlandese Lafcadio Hearn, le cui raccolte di antiche leggende costituiscono la base letteraria dell’opera. Un cortocircuito culturale affascinante: un regista giapponese che re-interpreta la propria tradizione attraverso la lente di un occidentale che ne era rimasto stregato.
I quattro episodi che compongono questo arazzo cinematografico, formalmente distinti ma tematicamente coesi, esplorano le conseguenze della rottura di un patto, della trasgressione di un ordine (sociale, naturale, spirituale). In Kurokami (Capelli neri), un samurai spiantato abbandona la moglie devota per un matrimonio di convenienza, solo per scoprire, anni dopo, che l'orrore può annidarsi nella più assoluta fedeltà. Il ritorno a casa è un capolavoro di tensione trattenuta, dove la polvere e le ragnatele non sono solo scenografia, ma la manifestazione fisica del tempo e del rimorso. La chioma nera della sposa tradita diventa un'entità lovecraftiana, un tentacolo vivente dell'oltretomba che avvolge il traditore in un sudario di giustizia poetica.
Con Yuki-Onna (La donna della neve), Kobayashi dipinge letteralmente su schermo. L'episodio è immerso in un bianco accecante, un vuoto primordiale interrotto solo dal nero dei tronchi e dal rosso del sangue. La scenografia si fa espressionista, quasi astratta. Il cielo non è un cielo atmosferico, ma una tela psicologica. Un occhio cosmico e scrutatore vi si apre, un dettaglio surrealista che sembra uscito da un quadro di Dalí o Max Ernst, ma che Kobayashi piega a una sensibilità puramente giapponese: è la Natura stessa che osserva, impassibile e divina, il dramma umano che si consuma al suo cospetto. La promessa strappata dalla glaciale Yuki-Onna a un giovane boscaiolo diventa una spada di Damocle che pende sulla sua felicità domestica, dimostrando come il soprannaturale non sia un'intrusione esterna, ma una legge fondamentale del mondo, invisibile finché non viene infranta.
Il cuore pulsante dell'opera è Miminashi Hōichi (Hōichi senz'orecchie), un'epopea spettrale che mette in scena la battaglia di Dan-no-ura, uno degli eventi più traumatici della storia giapponese. Hōichi, un cantastorie cieco, viene convocato notte dopo notte da un misterioso samurai per eseguire la sua ballata sulla caduta del clan Heike davanti a una corte di nobili. La rivelazione che la sua platea è composta dai fantasmi inquieti dei guerrieri annegati è uno dei momenti più sublimi e terrificanti del cinema. Non c’è violenza, solo un’infinita, tangibile malinconia. Per proteggerlo, i monaci ricoprono il corpo di Hōichi con i sutra del Sutra del Cuore, trasformando la sua pelle in un amuleto vivente. La tragica dimenticanza delle orecchie è un colpo di genio narrativo: lo spirito può toccare solo ciò che non è protetto dalla parola sacra. È una potentissima metafora sul potere e il pericolo dell'arte: l'artista è un medium, un canale che dà voce ai morti, ma questo potere lo espone a un rischio mortale, lo rende vulnerabile, lo segna per sempre.
Se i primi tre episodi sono capolavori di narrazione pittorica, il quarto, Chawan no Naka (In una tazza di tè), è un enigma meta-testuale che anticipa le vertigini post-moderne. Un samurai vede il volto di un altro guerriero riflesso nella sua tazza di tè. Ogni volta che beve, il volto riappare. La storia si interrompe bruscamente e la cinepresa ci rivela che stiamo assistendo al racconto di uno scrittore del XX secolo, che a sua volta viene visitato dagli spirali che sta cercando di evocare. Il film si ripiega su se stesso, la cornice narrativa si dissolve. È una mossa alla Borges, un gioco di specchi che interroga la natura stessa del racconto dell'orrore. Chi è il vero fantasma? Il personaggio della storia, lo scrittore che la narra, o noi spettatori che, nel buio della sala, cerchiamo un brivido sicuro e finiamo per trovare il nostro stesso volto riflesso nell'abisso? La paura, suggerisce Kobayashi, non è nell'evento soprannaturale, ma nell'atto stesso di raccontarlo e ascoltarlo, un rituale che può evocare presenze reali.
A cementare questa cattedrale visiva interviene la partitura sonora di Tōru Takemitsu. Chiamarla "colonna sonora" è riduttivo. Takemitsu scolpisce il silenzio. Il suo è un lavoro di sottrazione, dove suoni isolati – il crepitio del legno, il tonfo di una goccia, le note pizzicate di un biwa, frammenti elettronici disumani – squarciano il silenzio come un fulmine in una notte senza luna. È un sound design che non accompagna l'immagine, ma la interroga, la contraddice, ne svela un sottotesto invisibile e terrificante.
Kwaidan, che costò una fortuna e quasi mandò in bancarotta lo studio che lo produsse (costringendo lo stesso Kobayashi a vendere la sua casa per finanziare il completamento), è un'opera limite. Rifiuta le convenzioni del suo tempo per creare un linguaggio unico, un'esperienza sinestetica dove il cinema si fa pittura, teatro e musica concreta. È l'equivalente cinematografico di un campo di colore di Mark Rothko: non rappresenta un'emozione, la incarna. Non racconta una storia di fantasmi, ma evoca la loro stessa essenza. È un film che non va semplicemente visto, ma abitato. Un rituale da cui si esce cambiati, con la sensazione persistente che, forse, da qualche parte, in una tazza di tè o nello specchio di una pozzanghera, un altro volto ci stia fissando, in attesa di essere raccontato.
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