Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

La porta dell'inferno

1953

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Teinosuke Kinugasa, operando con il pionieristico Eastmancolor (sviluppato dalla Daiei, che voleva una sua arma per competere), usa il colore per scolpire uno psicodramma emotivo direttamente sullo schermo. L'arancione delle tuniche dei soldati è il colore della fiamma, del desiderio ossessivo. Il blu della notte è il colore del gelo, della morte dell'anima.

È impossibile guardare Jigokumon senza rimanere ipnotizzati dalla sua superficie. È un film che vive e muore sulla sua estetica. Ogni inquadratura è composta con la precisione di un emakimono, un antico rotolo dipinto giapponese. La profondità di campo è spesso annullata, gli sfondi sono pannelli di colore puro, i costumi (che vinsero un meritatissimo Oscar) sono armature cromatiche che definiscono il personaggio prima ancora che parli. Non c'è un filo fuori posto, non un granello di polvere "realistico". Kinugasa crea un mondo ermetico, un periodo Heian (siamo nel XII secolo, durante la ribellione di Heiji) che non è mai esistito, se non nell'immaginario collettivo dell'arte classica giapponese.

La trama, nella sua essenza, è una tragedia di una semplicità brutale, degna di un libretto d'opera. Durante la ribellione, il samurai Morito (un Kazuo Hasegawa che bilancia stoicismo e follia latente) salva la vita a una dama di corte, Kesa (la divina Machiko Kyō). Come ricompensa per il suo eroismo, il Lord Kiyomori gli offre qualsiasi cosa desideri. Morito, infatuatosi della donna, la chiede in sposa. C'è un solo, insormontabile problema: Kesa è già sposata, e felicemente, con Wataru (Isao Yamagata), un samurai della guardia imperiale. Il rifiuto, per quanto cortese, non fa che accendere l'ossessione di Morito. Quello che era un desiderio diventa una pretesa, e la pretesa diventa una patologia che inghiottirà tutti.

Il film è una collisione frontale tra il giri (il dovere sociale, l'onore) e il ninjo (la passione umana, il desiderio). Ma a differenza di molti jidaigeki (drammi storici), qui il ninjo non è romantico; è tossico. L'ossessione di Morito non è amore, è un virus egoistico. È il caos dell'individuo che cerca di squarciare la tela perfettamente composta della società. Kinugasa visualizza questo conflitto in modo magistrale. Il mondo di corte è tutto rituali, colori pastello, movimenti lenti e controllati. L'irruzione di Morito, con i suoi colori accesi e la sua energia repressa, è una macchia d'inchiostro su una pergamena di riso.

È affascinante il paragone con il cinema di Powell e Pressburger. Se Narciso Nero (1947) usava il Technicolor per dipingere l'isteria e la repressione sessuale in un convento himalayano, Jigokumon usa l'Eastmancolor per dipingere la disintegrazione psicologica di un uomo all'interno di una struttura sociale inflessibile. L'inferno del titolo non è un luogo ultraterreno con demoni e fiamme; è la mente di Morito. È l'inferno dell'ego ipertrofico che non accetta un "no". La "Porta dell'Inferno" è la soglia che Morito attraversa quando il suo desiderio legittimato (la ricompensa) diventa una pretesa illegittima (la moglie di un altro).

Ma il film appartiene, in ultima analisi, a Machiko Kyō. Reduce dal successo globale di Rashomon (1950), dove interpretava la vittima/seduttrice ambigua e selvaggia, qui Kyō compie un miracolo di sottrazione. La sua Kesa non è una femme fatale. Non è nemmeno una vittima passiva. È l'incarnazione del giri. È una donna la cui lealtà al marito è così assoluta, così pura, da diventare essa stessa una forza della natura, inflessibile quanto l'ossessione di Morito. La sua compostezza è la sua armatura. Di fronte alle minacce sempre più disperate di Morito (che arriva a minacciare di uccidere la sua famiglia), Kesa non crolla. Pianifica.

Il climax del film è una delle sequenze più raggelanti e formalmente perfette della storia del cinema. Kesa, apparentemente sconfitta, finge di cedere a Morito. Gli offre un patto terribile: lei lo aiuterà a uccidere suo marito Wataru nel sonno, così che lei possa essere "liberamente" sua. Kinugasa orchestra la scena dell'omicidio notturno con una maestria che fa impallidire Hitchcock. L'uso delle ombre, dei pannelli scorrevoli (i fusuma), del silenzio rotto solo dal frinire dei grilli. Morito striscia nell'oscurità, guidato dalla sua lussuria omicida, e colpisce la figura addormentata.

La rivelazione che Kesa si è sostituita al marito, sacrificando se stessa per salvare l'onore del marito e, in un certo senso, per "punire" Morito condannandolo alla sua stessa colpa, è pura tragedia greca. È un atto di volontà estremo, un suicidio per procura che preserva l'ordine sociale al prezzo più alto. La reazione di Morito non è (solo) orrore; è annichilimento. La sua ossessione, privata del suo oggetto, collassa su se stessa.

Quando Wataru, scoperto il cadavere, risparmia la vita a un Morito ormai catatonico, lo fa non per misericordia, ma perché capisce che la morte sarebbe una liberazione. Il vero inferno è vivere con la consapevolezza di ciò che si è fatto. E così, Jigokumon si chiude con l'immagine più potente: Morito, rasato a zero, che si incammina verso l'esilio come monaco buddista, allontanandosi dalla porta che dà il titolo al film. Non è redenzione. È una dannazione perpetua. È la condanna a vivere per sempre nel vuoto lasciato dal proprio desiderio distruttivo.

Jigokumon è un'opera d'arte totale. È un film che si ammira per la sua bellezza quasi insopportabile prima ancora di comprenderne la crudeltà. Ha vinto la Palma d'Oro a Cannes e l'Oscar, e ha aperto le porte a un'ondata di cinema giapponese a colori, ma pochi hanno eguagliato la sua audacia formale.

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