L'eclisse
1962
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Regista
La fine di una relazione, in Michelangelo Antonioni, non è mai un evento drammatico nel senso teatrale del termine. È piuttosto un’estinzione lenta, un raffreddamento termodinamico che si manifesta nello spazio tra i corpi. L'eclisse si apre su questo gelo. Siamo in un appartamento borghese nel quartiere EUR di Roma, e la lunga, quasi muta agonia che precede la rottura tra Vittoria (Monica Vitti) e Riccardo (Francisco Rabal) è un balletto di oggetti. Una cornice raddrizzata, un posacenere svuotato, il fruscio di una tenda. Antonioni non filma la passione che muore; filma il suo cadavere e l'ambiente che lo contiene, già pronto a riassorbirlo nell'indifferenza della materia. È il referto di un’autopsia, non la cronaca di un delitto. E qui sta il primo, agghiacciante colpo di genio: l’eziologia della malattia spirituale del Boom Economico non risiede nel fragore, ma nel silenzio che lo circonda.
Il paesaggio urbano diventa il vero protagonista, un sismografo dell'anima che ha smesso di vibrare. L'EUR, con la sua architettura razionalista, metafisica e spettrale, non è uno sfondo, ma una proiezione esterna del vuoto interiore. Le sue piazze assolate e deserte, i suoi palazzi monumentali e disabitati, sembrano usciti da una tela di De Chirico o da un racconto di fantascienza in cui l'umanità si è estinta lasciando dietro di sé solo le proprie impeccabili, inutili geometrie. Vittoria si muove in questo scenario come un'astronauta su un pianeta alieno, studiando con curiosità distaccata le vestigia di una civiltà emotiva che non le appartiene più. La sua erranza non è una ricerca, ma una deriva. Antonioni trasforma Roma in un paesaggio lunare, e Monica Vitti, con la sua bellezza nervosa e interrogativa, è la creatura perfettamente evoluta per sopravvivervi, un essere la cui sensibilità è diventata un organo vestigiale. La sua celebre camminata, quel suo incedere quasi fluttuante, non è solo un vezzo d'attrice, ma la rappresentazione fisica di uno scollamento dalla gravità del reale.
Se Vittoria è l'assenza, il vuoto che interroga, Piero, il giovane agente di borsa interpretato da un Alain Delon di predatoria e superficiale bellezza, è il pieno. Ma un pieno vacuo, fatto di materia, denaro e gesti meccanici. Il loro incontro avviene nel luogo più antitetico alla contemplazione antonioniana: la Borsa di Roma. Qui, il silenzio lascia il posto a una cacofonia disumana. Le scene della Borsa sono un capolavoro di coreografia del caos, un inferno dantesco riscritto nel linguaggio della finanza. Urla, numeri, telefoni che squillano, un minuto di silenzio per un collega morto che si trasforma immediatamente in un'esplosione di contrattazioni. È il motore pulsante e nevrotico del Miracolo Economico, un rituale tribale in cui il valore è un’astrazione urlata e la ricchezza una convulsione collettiva. Piero è il sommo sacerdote di questo culto. Tratta le persone come azioni, le emozioni come fluttuazioni di mercato. Quando mostra a Vittoria la foto del suo ultimo "acquisto", la sua auto sportiva, non sta condividendo una passione, ma un asset. La loro storia d'amore è destinata a fallire non per un conflitto, ma per un'incompatibilità ontologica: lei è un punto interrogativo, lui un punto esclamativo privo di frase.
Questo film è la più radicale espressione della "trilogia dell'incommunicabilità". Se L'avventura indagava la sparizione di una persona e la conseguente dissoluzione dei sentimenti, e La notte la lenta erosione di un matrimonio, L'eclisse va oltre: documenta la sparizione del sentimento stesso come categoria possibile dell'esperienza umana. Il dialogo tra Vittoria e Piero è un catalogo di afasie, di tentativi falliti di connettersi. Le loro conversazioni deragliano, si arenano, si perdono nell'osservazione di un dettaglio insignificante. Il loro bacio, rubato dietro una colonna, è un atto fisico privato di qualsiasi trascendenza, quasi un esperimento scientifico. Non c'è un vero ostacolo tra loro, nessun dramma esterno. L'ostacolo è l'aria stessa, l'inquinamento spirituale di un'epoca che ha barattato l'essere con l'avere. In questo senso, L'eclisse è il parente più prossimo di "The Waste Land" di T. S. Eliot. Come il poeta assemblava frammenti di una cultura in rovina per mostrare la sterilità del mondo moderno, così Antonioni assembla frammenti di narrazione, sguardi perduti e architetture mute per comporre il suo "heap of broken images", un mosaico della desolazione.
La sequenza al laghetto dell'EUR, dove Vittoria getta un pezzo di legno nell'acqua, è emblematica. È un gesto infantile, una ricerca di una risonanza, di una risposta dal mondo. Ma il mondo, come Piero, non risponde, o risponde con la logica della materia. L'acqua si increspa e torna calma. Tutto viene assorbito. Anche la parentesi quasi surreale con i vicini di casa, in cui Vittoria si trucca da danzatrice africana e si muove al ritmo di una musica esotica, non è una fuga, ma una sottolineatura della sua alienazione. È un tentativo di indossare un'identità "altra", primordiale e vitale, che però rimane un costume, una maschera che non aderisce mai al volto. È il turista della propria esistenza.
E poi, arriva la fine. L'apocalisse semantica. I sette minuti finali de L'eclisse costituiscono uno dei gesti più audaci e sconvolgenti della storia del cinema. Vittoria e Piero si danno appuntamento per la sera, nello stesso angolo di strada dove si sono incontrati. Ma non si presentano. Nessuno dei due. E la macchina da presa di Antonioni, invece di registrare la loro assenza, inizia a registrare il mondo. Il film si disfa dei suoi protagonisti e si concentra su ciò che resta: il getto d'acqua di un irrigatore, le gambe di un passante, una fermata d'autobus affollata, una bambinaia che spinge una carrozzina, il primo piano di un uomo che legge il giornale (con un titolo sulla minaccia atomica, non a caso), le nuove lampade al neon che si accendono ronzando. È l'eclisse non solo dell'amore, ma del racconto, dell'antropocentrismo. Il mondo non ha bisogno dei nostri piccoli drammi. Continua a esistere, indifferente, una collezione di dettagli senza un centro. L'inquadratura finale, un lampione accecante che sembra quasi una supernova, è la cancellazione definitiva, il trionfo della luce fredda e artificiale sulla fiamma incerta delle emozioni umane.
Rivedere L'eclisse oggi significa confrontarsi con una profezia terribilmente lucida. Antonioni aveva capito, con un anticipo di decenni, che la vera catastrofe del nostro tempo non sarebbe stata un'esplosione, ma un lento e inesorabile spegnimento. L'incapacità di connettersi, la progressiva reificazione dei rapporti umani, la trasformazione del paesaggio in un non-luogo funzionale, la supremazia dell'oggetto sul soggetto: sono tutti temi che oggi, nell'era della comunicazione digitale e della solitudine di massa, risuonano con una potenza quasi insopportabile. Il cinema di Antonioni non consola; disseziona. È un cinema di superfici che rivelano abissi, di silenzi che urlano. L'eclisse non è solo un capolavoro del modernismo; è un documento fondamentale per comprendere la genesi della nostra attuale condizione spirituale, un bollettino meteorologico dell'anima che annuncia un'era glaciale che, forse, non è ancora finita.
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