Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti

2010

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Assistere a un film di Apichatpong Weerasethakul è come imparare a leggere il cinema daccapo. È un esercizio di deprogrammazione sensoriale che ci chiede di abbandonare le categorie narrative a cui decenni di grammatica hollywoodiana e d’autore ci hanno assuefatto. Ci si ritrova disarmati, spogliati delle consuete bussole interpretative – trama, conflitto, risoluzione – e costretti a sintonizzarci su frequenze diverse: quelle del respiro della giungla, dei silenzi carichi di presenze, della logica onirica che governa un mondo in cui il confine tra vita, morte, sogno e memoria non è una linea, ma una nebbia permeabile. Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, Palma d'Oro a Cannes nel 2010 e vertice della filmografia del regista thailandese, è forse l'espressione più pura e accessibile di questa radicale poetica. È un film che non si guarda, ma in cui si abita, un'esperienza liminale che si deposita sottopelle per poi riaffiorare in momenti inaspettati, come il ricordo di un sogno dimenticato.

La premessa, quasi ingannevole nella sua semplicità, segue Boonmee, un uomo affetto da insufficienza renale che torna nella sua casa di campagna nella regione dell'Isan per trascorrere i suoi ultimi giorni. Ad assisterlo ci sono sua cognata Jen e il giovane Tong. Fin qui, tutto potrebbe far presagire un dramma familiare elegiaco sulla malattia e l'accettazione della fine. Ma Weerasethakul, che è tanto un cineasta quanto un artista visivo e un antropologo dello spirito, frantuma quasi subito ogni aspettativa. Durante una cena serale, assolutamente ordinaria, appaiono due figure. La prima è il fantasma di Huay, la moglie defunta di Boonmee, che si materializza a tavola con la stessa nonchalance con cui si potrebbe chiedere di passare il sale. Poco dopo, emerge dall'oscurità della foresta Boonsong, il figlio scomparso da anni, ora trasformato in un "Monkey Ghost", una creatura scimmiesca dal pelo nero e dagli occhi rossi incandescenti.

La grandezza sconcertante della scena risiede nella sua totale assenza di sensazionalismo. Non c'è un sussulto nella colonna sonora, né un montaggio concitato. La reazione dei personaggi viventi è di sorpresa, certo, ma stemperata in un'accettazione quasi immediata. È la logica del realismo magico di un Gabriel García Márquez traslata nel linguaggio del cinema contemplativo. Il soprannaturale non è un'incursione che viola le leggi del reale; è una componente intrinseca e quotidiana del reale stesso. In questo universo, permeato di animismo e credenze buddiste, gli spiriti degli antenati e le creature della foresta non sono "altro" dal mondo umano, ma ne sono un'estensione, un'altra frequenza della stessa realtà. Il Monkey Ghost, con i suoi occhi rossi che bucano il buio, potrebbe sembrare uscito da un B-movie horror, ma la sua essenza è malinconica e gentile. La sua trasformazione, spiega, è dovuta all'accoppiamento con una creatura della foresta, un'eco diretta delle metamorfosi che popolano la mitologia classica, da Ovidio in giù.

Questo film è l'atto cinematografico conclusivo del Primitive Project, un'installazione multi-piattaforma con cui Weerasethakul ha esplorato la memoria, la violenza e la mitologia della regione dell'Isan, e in particolare del villaggio di Nabua. Quest'area, negli anni '60 e '70, fu teatro di una brutale repressione da parte dell'esercito thailandese contro i contadini accusati di simpatie comuniste. Weerasethakul non realizza un film politico nel senso convenzionale del termine; non c'è denuncia didascalica o ricostruzione storica. Piuttosto, incarna l'idea che il paesaggio stesso sia un archivio vivente di traumi e storie. La giungla che circonda la casa di Boonmee non è uno sfondo, ma un protagonista senziente, un organismo che respira e ricorda. I suoni assordanti degli insetti, il fruscio delle foglie, il buio impenetrabile non sono elementi decorativi, ma la voce di questa memoria ancestrale e storica. In questo, il cinema di Weerasethakul trova un inaspettato compagno di viaggio nello Stalker di Andrej Tarkovskij: in entrambi i film, un luogo fisico – la Zona, la giungla – diventa uno spazio metafisico, un'entità capace di riflettere e materializzare gli stati interiori dei personaggi.

Boonmee stesso è un veicolo di questa memoria collettiva. La sua malattia diventa il catalizzatore che dissolve i confini del suo io individuale, permettendogli di "ricordare" le sue vite precedenti: un bufalo d'acqua, una principessa, forse persino un pesce gatto. Il film si prende una pausa narrativa straordinaria per raccontarci una di queste vite, quella di una principessa dal volto sfigurato che offre il suo corpo a un pesce gatto parlante in un laghetto incantato. La sequenza, girata con una pellicola dall'aspetto volutamente datato e "povero", sembra un frammento di un vecchio film fantasy thailandese. È un interludio lirico, erotico e perturbante che espande il tema della metamorfosi e della fluidità dell'identità. È la dimostrazione che per Weerasethakul la reincarnazione non è solo un concetto teologico, ma un principio narrativo: le storie, come le anime, migrano attraverso i corpi, i generi e persino le specie.

Il viaggio di Boonmee culmina in una grotta, luogo che egli riconosce come il suo primo luogo di nascita. La grotta è un simbolo archetipico universale: l'utero della Madre Terra, il punto di passaggio tra i mondi, l'inconscio. Qui, circondato dai suoi familiari vivi e morti, Boonmee si prepara a dissolversi. La fotografia di Sayombhu Mukdeeprom cattura la scena con una luce fioca e pittorica, trasformando la grotta in un santuario primordiale. La morte non è presentata come una fine tragica, ma come un ritorno, un ricongiungimento con il ciclo cosmico di cui l'esistenza individuale è solo una manifestazione temporanea.

Se il film finisse qui, sarebbe già un capolavoro di cinema spirituale. Ma Weerasethakul ci riserva un ultimo, spiazzante colpo di genio. Dopo il funerale di Boonmee, ci ritroviamo in una stanza d'albergo. Tong, che nel frattempo si è fatto monaco, è a guardare la televisione con Jen. In un momento di pura magia meta-cinematografica, che evoca le scissioni dell'io di David Lynch in Twin Peaks: The Return, Tong si alza, il suo corpo fisico rimane a guardare la TV, mentre una sua versione trasparente, spettrale, esce dalla stanza con Jen per andare a cena. Che cos'è questa duplicazione? È un commento sulla natura stessa della visione. Noi spettatori, come il doppio di Tong, siamo presenze spettrali che osservano una realtà proiettata. Siamo fantasmi nella sala cinematografica. Weerasethakul chiude il suo film sull'interconnessione di tutte le cose con un'immagine che riflette sulla separazione fondamentale tra osservatore e osservato, tra realtà e sua rappresentazione. È un gesto intellettuale vertiginoso che apre il film a infinite letture: sulla modernità che si scontra con la tradizione, sulla schizofrenia dell'identità contemporanea, sul potere del cinema di creare doppi spettrali del mondo.

Lo zio Boonmee è un'opera che rifiuta di essere afferrata completamente, un poema visivo che funziona per accumulo di sensazioni più che per sviluppo logico. Chiede allo spettatore di arrendersi, di lasciarsi trasportare dalla sua corrente lenta e ipnotica. È un film che ci insegna a vedere il mondo non come una collezione di oggetti separati, ma come una rete vibrante di spiriti, memorie e trasformazioni. È un manuale per disimparare le nostre certezze e riscoprire la magia che si annida nella trama porosa del reale. E in un'epoca di narrazioni iper-strutturate e spiegazioni onnipresenti, un'opera che celebra il mistero con tale serena e profonda convinzione non è solo un capolavoro, è un atto di necessaria resistenza.

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