L'uomo che ride
1928
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Regista
Un ghigno perenne, scolpito nella carne da bambino per servire da eterno spettacolo. Una maschera grottesca che condanna il suo portatore, Gwynplaine, a un'ilarità forzata mentre il suo animo sprofonda nella più cupa delle tragedie. Quest'immagine, di una potenza visiva che travalica il tempo, è l'abisso iconografico da cui Paul Leni estrae il suo capolavoro del 1928, L'uomo che ride. Affrontare quest'opera significa compiere un'immersione in un crocevia unico nella storia del cinema: il punto di collisione tra l'epos romantico e sociale di Victor Hugo, l'estetica allucinata dell'Espressionismo tedesco in esilio e la nascente, famelica macchina produttiva di una Hollywood che stava per imparare a parlare, ma che qui dimostra di saper urlare in silenzio con una forza ineguagliata.
Prima di ogni analisi, sgombriamo il campo dall'elefante nella stanza, o meglio, dal clown principe del crimine. Sì, è impossibile guardare il volto di Conrad Veidt, con quella cicatrice che trasforma il viso in una maschera di Ed Gein disegnata da un folle burattinaio, e non pensare al Joker di Bob Kane e Bill Finger. Ma ridurre L'uomo che ride al suo status di "ispirazione seminale" sarebbe come definire la Cappella Sistina un semplice "soffitto affrescato". Il film di Leni non è un precursore; è un testo sacro, un'origine del mito da cui discende non solo un'icona pop, ma un intero archetipo: quello della sofferenza mascherata da spettacolo, del dolore trasformato in intrattenimento per una società crudele e voyeuristica.
Paul Leni, transfuga della UFA tedesca come molti suoi colleghi (Murnau, Lang), fu reclutato dalla Universal di Carl Laemmle, un altro esule tedesco che stava astutamente costruendo il suo pantheon di mostri. Leni, però, non era un dogmatico dell'Espressionismo. Se Il gabinetto del dottor Caligari deformava la realtà attraverso scenografie spigolose e innaturali per riflettere la psiche fratturata dei suoi personaggi, Leni ammorbidisce quegli angoli, li immerge in un gotico più fluido e romantico. La sua è una poetica del chiaroscuro sontuoso, dove le ombre non sono squarci nella tela della realtà, ma velluti densi che avvolgono e nascondono i segreti di un'Inghilterra del XVII secolo immaginaria e decadente. Gli scenari, mastodontici e opulenti, non sono distorti, ma piuttosto iper-reali, quasi soffocanti nella loro grandiosità, a simboleggiare il peso di una struttura sociale che schiaccia l'individuo. È un Espressionismo che ha fatto pace con la narrazione classica, un ibrido magnifico che fonde l'incubo europeo con il melodramma americano.
Il film, come l'imponente romanzo di Hugo, è una feroce accusa contro l'aristocrazia e l'ipocrisia del potere. Gwynplaine, figlio di un nobile esiliato e sfregiato dai Comprachicos (mercanti di bambini deformati per divertire i ricchi), è l'incarnazione del paradosso sociale. Il suo "dono", la sua risata perenne, lo rende una star nel carrozzone del filosofo girovago Ursus, ma è lo stesso marchio che gli impedisce di essere visto come un essere umano. Egli è l'Altro assoluto, il freak la cui esistenza serve a rassicurare la "normalità" del pubblico pagante. Leni orchestra queste scene di spettacolo con una sensibilità metacinematografica acutissima: noi, spettatori del 2024, guardiamo un pubblico del 1928 che guarda un pubblico del '600 ridere di un uomo la cui sofferenza è la sua arte. È una catena di sguardi che ci interroga sul nostro stesso voyeurismo, sulla natura stessa dell'intrattenimento basato sull'esposizione della diversità.
In questo abisso di cinismo, l'unica luce è Dea (una Mary Philbin eterea e struggente), la ragazza cieca che Gwynplaine ha salvato da una bufera di neve. La sua cecità, lungi dall'essere una menomazione, è una metafora potentissima: è l'unica in grado di "vedere" l'anima di Gwynplaine oltre la sua maschera di carne. Il loro amore è un idillio puro, quasi fiabesco, un rifugio fragile contro la brutalità del mondo. È un amore che esiste in un'altra dimensione, quella del tatto e della parola sussurrata, un contrasto radicale con la lussuria predatoria e visiva della duchessa Josiana (una Olga Baclanova ammaliante e perversa), annoiata aristocratica che desidera Gwynplaine proprio in virtù della sua mostruosità, come un nuovo, esotico giocattolo per saziare la sua decadente lussuria. Lo scontro tra Dea e Josiana non è solo quello tra due donne, ma tra due modi di vedere il mondo: l'amore che trascende la superficie contro il desiderio che la consuma.
Ma è nella performance di Conrad Veidt che il film ascende a vette di puro genio. Schiavo di un trucco prostetico che gli immobilizzava gran parte del volto, Veidt compie un miracolo di recitazione espressionista. Comunica un universo di dolore, umiliazione e amore disperato unicamente attraverso gli occhi. Quegli occhi, annegati in un volto che ride senza sosta, sono tra le immagini più strazianti della storia del cinema. Sono lo specchio di un'anima in catene, un grido silenzioso che buca lo schermo. La sua fisicità, memore del suo Cesare in Caligari, è quella di un corpo torturato, quasi un Cristo grottesco il cui martirio è essere applaudito. La scena in cui, reintegrato nel suo rango nobiliare, tenta di parlare alla Camera dei Lord e la sua supplica viene soffocata dalla sua stessa risata involontaria è un momento di cinema totale. È la tragedia dell'incomunicabilità, l'allegoria straziante di un popolo la cui voce di sofferenza viene percepita dall'élite come una farsa, un rumore di fondo da ignorare.
L'influenza di questo film si propaga come un'onda lunga. Oltre al già citato Joker, ogni personaggio la cui deformità fisica è specchio di un trauma interiore, da Erik, il Fantasma dell'Opera (interpretato da un altro maestro del grottesco, Lon Chaney), a Edward Mani di Forbice di Tim Burton, è in debito con Gwynplaine. L'estetica del deforme, che trova le sue radici nel romanticismo gotico e che l'Espressionismo ha codificato visivamente, qui raggiunge un apice di complessità emotiva. Non è semplice horror, ma un'indagine profonda sulla natura della bellezza, dell'identità e dell'empatia. Leni ci costringe a chiederci: chi è il vero mostro? L'uomo che ride perché non può farne a meno, o la società che ride di lui per scelta?
L'uomo che ride è un'opera che vive di contrasti lancinanti: il silenzio assordante di un mondo che sta per scoprire il sonoro, la magnificenza scenografica che fa da cornice a una miseria umana indicibile, una risata che è il suono di un cuore che si spezza. È un melodramma fiammeggiante con l'anima nera di un incubo tedesco, un poema visivo sulla crudeltà dello sguardo e sulla salvezza che può venire solo da chi sceglie di non vedere. Il suo finale, più speranzoso di quello nichilista di Hugo, è una concessione alla sensibilità hollywoodiana, ma non ne intacca la potenza. La fuga di Gwynplaine e Dea verso un altrove incerto non è un lieto fine, ma la disperata affermazione che l'unica patria possibile per gli emarginati è l'amore reciproco, un'isola invisibile in un oceano di scherno. Quel ghigno, impresso a fuoco nella memoria collettiva, rimane il sigillo indelebile di un cinema che sapeva essere, allo stesso tempo, spettacolo grandioso e potentissima riflessione sulla condizione umana. Una ferita aperta sul volto della settima arte, che continua a ridere e a sanguinare.
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