
Man on Wire - Un uomo tra le torri
2008
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Regista
Esiste un crimine perfetto? Dostoevskij ne ha sondato le profondità morali, Hitchcock ne ha orchestrato le geometrie della suspense, ma James Marsh, con Man on Wire, ne filma l'essenza più pura, più poeticamente inutile e, per questo, assolutamente necessaria. Il documentario non racconta semplicemente la storia di Philippe Petit e della sua funambolica, illegale traversata tra le Torri Gemelle del World Trade Center il 7 agosto 1974. No, fa qualcosa di molto più astuto e vertiginoso: orchestra l'intera narrazione come un heist movie, un film di rapina dove il bottino non è materiale, ma consiste nel furto di un istante di sublime, un'effrazione nell'immaginario collettivo. "Le coup", come lo chiama Petit stesso con la sua carismatica, quasi mefistofelica energia, non è un colpo in banca, ma un colpo al cuore della realtà.
La struttura è quella, inconfondibile, di un classico del genere, un Rififi di Jules Dassin spogliato della sua violenza nichilista e rivestito di un'aura di lirismo folle. C'è il capo carismatico e ossessionato (Petit, un incrocio tra un folletto e un generale napoleonico), la squadra di complici (ognuno con un ruolo, ognuno con i suoi dubbi), la pianificazione meticolosa, le mappe, i travestimenti, l'infiltrazione notturna nel "caveau" – le due torri ancora vergini, quasi aliene nel loro gigantismo modernista. Marsh utilizza le interviste ai protagonisti non come semplici teste parlanti che rievocano il passato, ma come narratori di un thriller che stanno rivivendo, con il sudore e l'ansia di quarant'anni prima ancora impressi sui volti. Le ricostruzioni, girate in un bianco e nero granuloso e quasi onirico, non sono didascaliche; sono frammenti di un sogno noir, visioni che colmano i vuoti della documentazione fotografica e che amplificano la tensione fino a renderla quasi insostenibile.
Ma chi è Philippe Petit? Non è un atleta, non è un circense nel senso tradizionale del termine. È una figura che sembra uscita da un racconto di Borges, un uomo che decide di imporre una linea retta e fragile – un cavo d'acciaio – sulla geometria spietata di Manhattan, creando un paradosso vivente. È un demiurgo capriccioso, un trickster che gioca con le leggi della fisica e della società. La sua ossessione non ha una logica pragmatica; è l'ossessione del Fitzcarraldo di Herzog, che vuole costruire un teatro d'opera nella giungla. È la ricerca di un sublime che non si trova nella natura selvaggia dei Romantici, ma nel cuore artificiale della metropoli, nel vuoto creato dall'uomo. Petit non scala una montagna; cammina sull'aria tra due monumenti all'ambizione umana, trasformandoli per 45 minuti in qualcosa di diverso, in un piedistallo per un atto di pura, gratuita bellezza. In quel momento, le torri cessano di essere uffici e diventano cattedrali.
Il contesto è fondamentale. La New York del 1974 non è la scintillante capitale del mondo che immaginiamo oggi. È una città sull'orlo della bancarotta, sporca, pericolosa, una giungla d'asfalto dove il cinismo regna sovrano. Le Torri Gemelle, appena completate, non sono ancora i simboli amati che diventeranno. Molti le vedono come due parallelepipedi arroganti e senz'anima, una ferita nel cielo. L'impresa di Petit è un atto di riappropriazione poetica. Un artista di strada francese, con un'audacia che rasenta la follia, si prende gioco della sicurezza, della burocrazia, della gravità stessa, e regala alla città un'epifania. Per quasi un'ora, costringe migliaia di newyorkesi frettolosi a fermarsi, a guardare in alto, a trattenere il respiro collettivamente, uniti in uno stupore quasi infantile. È un'opera di performance art che anticipa di decenni le installazioni su larga scala, un gesto che infonde un'anima mitologica in quelle strutture di acciaio e vetro.
E qui risiede il potere più profondo e straziante del film. Marsh compie una scelta registica di una potenza inaudita: non menziona mai, neanche una volta, il destino finale delle torri. Il 9/11 è l'assenza più presente della storia del cinema documentario. Questa elisione trasforma Man on Wire in un'elegia involontaria, un canto funebre per un'innocenza perduta. Guardando le immagini di Petit che danza sereno tra le nuvole, con le torri che si stagliano contro il cielo mattutino come due divinità gemelle e benevole, veniamo proiettati in un'era pre-lapsaria, un tempo in cui la più grande minaccia a quei giganti era la fantasia di un sognatore. Il film non è un monumento al WTC, ma un fantasma che ne evoca la vita, non la morte. Ci restituisce le torri come erano state concepite: non come un bersaglio o una tomba, ma come una tela bianca per l'audacia umana. La colonna sonora, che alterna le partiture propulsive e minimaliste di Michael Nyman (un chiaro debito a Philip Glass e alla musica che definirà l'anima di quella New York) alla malinconia eterea delle Gymnopédies di Erik Satie, è la perfetta chiosa sonora a questo sentimento di nostalgia per un futuro che non è mai stato.
Il film, però, non si limita a celebrare l'impresa. Ne esplora anche il costo umano, la discesa agrodolce dopo l'ascensione. Una volta tornato a terra, l'Icaro che non si è bruciato deve affrontare le conseguenze terrene. La fama, l'arresto (il più surreale della storia), ma soprattutto la disintegrazione del gruppo. I suoi amici, i complici che hanno rischiato tutto per il suo sogno, vengono messi da parte. La lealtà si incrina, l'amicizia si dissolve nell'ego straripante dell'artista che ha compiuto l'impossibile. L'ultima parte del film è intrisa di una profonda malinconia. Dopo aver toccato il cielo, camminare di nuovo sulla terra sembra una condanna. La magia svanisce, lasciando dietro di sé i cocci delle relazioni umane. È il lato oscuro di ogni grande impresa: la solitudine del genio, l'incapacità di condividere pienamente un'esperienza che, per sua natura, può appartenere solo a chi l'ha vissuta in prima persona, lassù, sul filo.
Man on Wire trascende il genere documentaristico. È un saggio filosofico sul rapporto tra ordine e caos, tra l'architettura rigida e la fragile organicità del corpo umano. È un thriller psicologico sull'ossessione. È una fiaba moderna su un uomo che ha camminato sulle nuvole. E, soprattutto, è una potente seduta spiritica cinematografica che resuscita due fantasmi di acciaio e vetro non per ricordarci come sono caduti, ma per celebrare l'unico momento in cui, grazie a un folle poeta del vuoto, hanno imparato a danzare. È il racconto di un crimine perfetto perché il suo autore non ha rubato nulla, ma ha donato tutto: un ricordo incancellabile, un'immagine surrealista – degna di un Magritte che abbia scambiato la sua tela per il cielo di Manhattan – impressa a fuoco nella memoria di una città e, grazie a questo film, del mondo intero.
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