Mio zio d'America
1980
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Regista
Sezionare un film di Alain Resnais è un’impresa che si avvicina più alla vivisezione di un organismo complesso che alla critica di un’opera narrativa. E in nessun altro suo lavoro questo paragone è tanto calzante, quasi letterale, quanto in "Mio zio d'America". Qui, il regista della memoria frammentata e delle architetture mentali di Hiroshima mon amour e L'anno scorso a Marienbad abbandona i corridoi infiniti della soggettività pura per erigere un laboratorio a cielo aperto, un terrario umano in cui le cavie non sono roditori bianchi, ma tre esemplari di Homo sapiens francese alle soglie degli anni Ottanta. Il risultato è un’opera spiazzante, un saggio filmico che usa la finzione come vetrino da microscopio, un trattato di etologia umana mascherato da commedia agrodolce.
La struttura è un audace e vertiginoso collage intellettuale. Tre storie parallele, destinate a intersecarsi in un balletto crudele di ambizioni e frustrazioni. C'è René (un Gérard Depardieu tellurico e vulnerabile), di umili origini contadine, che scala la gerarchia di una fabbrica tessile solo per trovarsi sull'orlo del precipizio manageriale. C'è Janine (una Nicole Garcia algida e febbrile), figlia di militanti comunisti, che rinnega la sua educazione ideologica per inseguire il successo nel mondo dello spettacolo e della moda. E c'è Jean (un superbo e misurato Roger Pierre), rampollo della borghesia colta, la cui carriera politica e mediatica è un costante esercizio di potere e di fuga dalle proprie responsabilità emotive. Tre destini, tre traiettorie di ascesa sociale e crisi esistenziale che, in un film convenzionale, avrebbero costituito il fulcro del dramma. Ma Resnais non è un regista convenzionale.
A fare da architrave e da grimaldello epistemologico all'intera costruzione è la figura del biologo e filosofo Henri Laborit, che appare nel film nel ruolo di se stesso, un demiurgo in camice bianco che commenta, spiega e incornicia le azioni dei personaggi attraverso le sue teorie sul comportamento. Il cervello trino (rettiliano, limbico, neocorticale), le reazioni di fronte allo stress (attacco, fuga, inibizione dell'azione) e la lotta per il dominio non sono semplici commenti a margine: sono il sistema operativo del film. Resnais, con una mossa di genio registico, intercala costantemente le vicende umane con filmati di esperimenti sui ratti. Un manager umiliato dal suo superiore? Stacco su un topo che subisce una scossa elettrica dopo aver trovato il suo cibo bloccato da una paratia. Una donna intrappolata in una relazione senza via d'uscita? Ecco un ratto che, incapace di fuggire o combattere, sviluppa ulcere e somatizzazioni.
Questo parallelismo, che potrebbe suonare didascalico o brutalmente riduzionista, nelle mani di Resnais diventa un cortocircuito potentissimo. Ci costringe a mettere in discussione il nostro stesso umanesimo, l'idea romantica del libero arbitrio, la narrazione che ci raccontiamo per dare un senso alle nostre vite. Cos'è dunque l'uomo, sembra chiederci Resnais, se non un super-organismo in preda a impulsi biochimici, mascherati da libere scelte e giustificati a posteriori dalla nostra corteccia cerebrale? La disamina è fredda, quasi clinica, eppure il film non è mai privo di una sotterranea empatia per queste creature intrappolate nelle gabbie invisibili delle loro esistenze. È un'opera che possiede il rigore scientifico di un documentario della BBC e la disperazione esistenziale di un romanzo di Michel Houellebecq, scritto con trent'anni d'anticipo.
Ma il gioco di specchi di Resnais non si ferma al determinismo biologico. Con una stratificazione meta-testuale che anticipa le ossessioni post-moderne di un Charlie Kaufman, il regista aggiunge un altro livello di condizionamento: quello culturale, e più specificamente, cinematografico. Ogni personaggio non agisce solo in base ai suoi istinti primari, ma anche modellando il proprio comportamento su archetipi iconici del cinema francese. Così, nei momenti di crisi o di decisione, Jean si rifà alla solidità virile e patriarcale di Jean Gabin; Janine evoca l'eleganza tormentata e fatale di Danielle Darrieux; e René sogna l'eroismo avventuroso e romantico di Jean Marais. Il nostro "zio d'America", la figura mitica del titolo che promette successo e una via di fuga, non è altro che un fantasma, un costrutto culturale, una favola. La vera gabbia, forse la più potente, è il cinema che abbiamo nella testa, il repertorio di immagini e narrazioni che informa i nostri desideri e le nostre reazioni. Siamo ratti in un labirinto, sì, ma un labirinto le cui pareti sono tappezzate con i poster dei nostri film preferiti.
Questo approccio colloca "Mio zio d'America" in una posizione unica nel panorama cinematografico. Da un lato, è l'erede diretto del "cinema-saggio" di Jean-Luc Godard, con il suo gusto per la decostruzione, la citazione e la lezione frontale. Dall'altro, ne rappresenta una sorta di rovesciamento. Se Godard usa il saggio per fare politica, Resnais lo usa per fare scienza, o meglio, per esplorare le fondamenta biologiche su cui ogni sovrastruttura politica e sociale poggia. Inoltre, l'opera dialoga a distanza con il naturalismo letterario di un Émile Zola, il cui ciclo dei Rougon-Macquart era, a suo modo, un gigantesco esperimento per "studiare le tare ereditarie e l'influenza dell'ambiente". René, il manager tessile di Depardieu, è un personaggio che non avrebbe sfigurato in "Germinal" o "L'ammazzatoio", un uomo schiacciato da forze più grandi di lui, economiche e biologiche.
La regia di Resnais è di una precisione chirurgica. Il montaggio, curato come sempre dal fido Albert Jurgenson, non è semplicemente narrativo, ma associativo e argomentativo. Ogni stacco è una tesi, ogni accostamento un'ipotesi. La fotografia di Sacha Vierny, fredda e funzionale, evita ogni compiacimento estetico, servendo la lucidità del discorso. Eppure, il film non è un gelido esercizio intellettuale. La performance degli attori, lasciati liberi di infondere calore e nevrosi nei loro "casi di studio", crea una tensione costante tra l'astrazione della teoria e la concretezza del dramma umano. La sofferenza di René, la frustrazione di Janine, l'ipocrisia di Jean sono palpabili, reali, e proprio per questo il loro accostamento ai ratti di laboratorio risulta così profondamente inquietante e fecondo.
Visto oggi, "Mio zio d'America" appare profetico. In un'epoca dominata dalle neuroscienze, dal marketing comportamentale e dai dibattiti sul confine tra natura e cultura, il film di Resnais non ha perso un'oncia della sua rilevanza. Anzi, la sua audacia formale e la radicalità del suo pensiero risuonano con una forza ancora maggiore. È un'opera che sfida lo spettatore, che lo obbliga a rinegoziare la propria percezione di sé e del cinema stesso. Non offre facili risposte o consolazioni. Laborit, nel finale, ci dice che mentre l'uomo è l'unica creatura capace di capire i meccanismi che lo governano, raramente usa questa conoscenza per cambiare. Continuiamo a lottare per il dominio, a fuggire, a inibirci, intrappolati in una coazione a ripetere che ha radici antiche quanto il nostro cervello rettiliano. È un capolavoro spietato e geniale, un oggetto cinematografico non identificato che continua a interrogare, provocare e illuminare, dimostrando che il cinema, a volte, può essere lo strumento più affilato per sezionare l'anima. O, forse, solo il cervello.
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