Mouchette - Tutta la vita in una notte
1967
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Regista
L’universo cinematografico di Robert Bresson non offre comfort. È un territorio di ascetismo formale e rigore spirituale che opera sullo spettatore come un bisturi, incidendo oltre la superficie della narrazione per esporre l'anima nuda dei suoi personaggi. Mouchette, distillato purissimo e quasi insopportabile della sua poetica, è forse l'incisione più profonda. Il film si apre con una trappola, un laccio che scatta e imprigiona un uccello. Non è un semplice prologo, ma la dichiarazione d'intenti di un'opera intera: il mondo è una trappola e Mouchette, la sua giovanissima protagonista, è la creatura destinata a finirvi dentro, con la stessa ineluttabile fatalità.
Adattato dal romanzo di Georges Bernanos, già fonte per il suo capolavoro Diario di un curato di campagna, il film ci getta in una Francia rurale e atemporale, una geografia della disperazione fatta di fango, pioggia incessante e orizzonti bassi. Mouchette (una straordinaria non-attrice, Nadine Nortier, il cui volto è una maschera di sfida e dolore represso) è un'emarginata per definizione. A scuola è la reietta, a casa è la serva di un padre alcolizzato e violento e di una madre morente. La sua esistenza è un sordo accumulo di umiliazioni, una litania di crudeltà piccole e grandi. Il suono dei suoi zoccoli sul terreno fangoso non è un semplice dettaglio sonoro, ma il metronomo della sua prigionia, un ritmo ostinato che scandisce una via crucis senza redenzione. Bresson, con la sua fede nel "cinematografo" come arte di rivelazione e non di rappresentazione, la filma non con pietà, ma con la precisione di un entomologo che studia un esemplare raro. Non ci chiede di "immedesimarci" in Mouchette; ci comanda di osservarla, di testimoniare la sua Via Dolorosa.
La grandezza di Bresson risiede nel suo metodo, una forma di ascetismo radicale che lo pone in diretta antitesi con il cinema del suo tempo e, a maggior ragione, con quello odierno. I suoi interpreti, che lui chiamava "modelli", sono svuotati di ogni intenzione psicologica. Recitano le battute con una piattezza quasi liturgica, i loro gesti sono ridotti all'essenziale. Le mani che afferrano un bicchiere, i piedi che si trascinano nel fango, il volto che si chiude in una smorfia impenetrabile: sono questi i geroglifici attraverso cui Bresson ci parla dello spirito. È una tecnica che affonda le sue radici nella teologia giansenista, con la sua cupa visione di un mondo privo di grazia, dove la salvezza è un dono arbitrario e quasi impossibile. L'inquadratura bressoniana, così rigorosa e precisa, non cerca la bellezza; cerca la verità nella materia. C'è un'affinità quasi pittorica con i primitivi fiamminghi, in quel modo di dare peso e consistenza a ogni oggetto, a ogni texture, come se il dramma spirituale potesse essere colto solo attraverso la sua manifestazione più concreta e terrena.
Se Au hasard Balthazar, girato l'anno precedente, è il suo gemello speculare – il racconto della sofferenza attraverso lo sguardo di un asino, creatura cristologica per eccellenza –, Mouchette è la sua controparte umana, ancora più disperata perché consapevole. Balthazar subisce, Mouchette si ribella. La sua ribellione, però, è quella di un animale in gabbia: uno sguardo di disprezzo, un lancio di fango, piccoli atti di sabotaggio contro un ordine cosmico che l'ha già condannata. Un parallelo illuminante potrebbe essere tracciato non tanto con i coevi ritratti di adolescenti ribelli come Antoine Doinel de I 400 colpi di Truffaut – animato da una vitalità e da un desiderio di fuga del tutto assenti in Mouchette – quanto con i personaggi diseredati e quasi grotteschi della scrittrice americana Flannery O'Connor. Come nelle sue storie del Profondo Sud, anche qui la violenza e la brutalità non sono strumenti di critica sociale, ma eventi teologici, momenti in cui l'assenza di Dio si fa palpabile, quasi un urlo nel silenzio.
Il film è costellato di sequenze che si imprimono nella memoria con la forza di un trauma. La giostra degli autoscontri alla fiera di paese è un momento emblematico: per un attimo, nella violenza coreografata degli urti e nella musica assordante, Mouchette sperimenta una forma di comunione, un contatto fisico che è quasi una carezza. Ma è una gioia effimera, un'illusione che si dissolve non appena le luci si spengono, lasciandola più sola di prima. L'incontro con il bracconiere Arsène, figura ambigua di protettore e carnefice, culmina nella violenza sessuale, filmata da Bresson con un pudore agghiacciante. Non vediamo l'atto, ma ne sentiamo il peso, la conseguenza, l'ennesima umiliazione inflitta a un corpo che è già un catalogo di ferite. In questo, Bresson si rivela l'antitesi di registi come Buñuel, che in Los Olvidados usa la crudeltà per scopi di denuncia sociale e di provocazione surrealista. Per Bresson, la crudeltà è uno stato dell'essere, una condizione metafisica del mondo post-lapsariano.
La colonna sonora, come sempre nel suo cinema, è usata in modo dialettico. L'uso di un frammento del Magnificat di Monteverdi non serve a elevare la scena o a offrire consolazione. Al contrario, la musica sacra, che canta la gloria di un Dio che "ha disperso i superbi" e "innalzato gli umili", stride in modo quasi blasfemo con il destino di Mouchette, umile tra gli umili, a cui nessuna esaltazione è concessa. Il divino irrompe nel profano non per redimerlo, ma per sottolinearne l'abissale distanza. È un gesto di una modernità sconcertante, che anticipa l'uso straniante della musica in Kubrick o Haneke, dove la bellezza classica viene fatta cozzare contro l'orrore della condizione umana.
E poi c'è il finale, una delle sequenze più discusse e potenti della storia del cinema. Dopo l'ultima, definitiva crudeltà – il disprezzo della comunità di fronte al suo dolore –, Mouchette si trova sola, vicino a un ruscello. Indossa un abito bianco, un sudario nuziale donatole quasi per scherno. Inizia a rotolare giù per la scarpata erbosa, una, due volte, come in un gioco infantile e macabro. La terza volta, il suo corpo scivola nell'acqua e scompare. Suicidio? Incidente? Liberazione? Bresson si rifiuta di dare una risposta psicologica. È un atto puramente fisico, una resa alla gravità. Il suo corpo, che è stato il bersaglio di ogni violenza, trova una pace terribile nel dissolvimento, in una sorta di battesimo al contrario che non purifica, ma annienta. È una coreografia della sottomissione finale alle leggi della materia, l'ultimo, silenzioso atto di un'esistenza che è stata solo peso e caduta.
Vedere Mouchette oggi, in un'era di narrazioni consolatorie e di facile empatia, è un'esperienza quasi fisica. È un film che fa male, che prosciuga, che lascia lo spettatore in un silenzio carico di domande senza risposta. Non è un'opera che si ama con leggerezza; è un monolite che si rispetta con timore, un testamento implacabile sulla solitudine dell'anima in un mondo che ha dimenticato come si prega. Un capolavoro assoluto, necessario e terribile, che conferma il cinema non solo come forma d'arte, ma come strumento di indagine spirituale, anche quando l'unica cosa che trova è un'assenza abissale.
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