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Ottobre - I dieci giorni che sconvolsero il mondo

1928

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Guardare Ottobre oggi è come disinnescare una bomba semiotica a quasi un secolo dalla sua detonazione. Non si tratta di un film, ma di un ordigno. Non di una narrazione, ma di una tesi di laurea in grammatica cinematografica scritta con la dinamite. Sergej Ejzenštejn, incaricato di celebrare il decimo anniversario della Rivoluzione d'Ottobre, non si limita a ricostruire gli eventi; li rifonda, li smonta e li riassembla in un meccanismo a orologeria progettato per colpire non il cuore dello spettatore, ma direttamente le sue sinapsi. Il cinema, nelle sue mani, cessa di essere finestra sul mondo e diventa un martello per forgiarlo, un bisturi per sezionarne l'ideologia.

L'operazione condotta da Ejzenštejn è di una lucidità teorica quasi terrificante. Abbandonata la struttura epica e più accessibile de La corazzata Potëmkin, qui si immerge senza compromessi nelle acque gelide del "montaggio intellettuale". La sua tesi è che l'accostamento di due inquadrature, A e B, non produce semplicemente una sequenza, ma genera un terzo concetto, C, nella mente dello spettatore. È il materialismo dialettico applicato alla celluloide: tesi, antitesi, sintesi. E gli esempi sono leggenda. Il primo ministro Kerenskij, esitante e vanaglorioso, viene montato in parallelo con un pavone meccanico che apre la sua ruota. L'idea astratta – la vacua presunzione del potere – si materializza senza bisogno di una sola riga di dialogo. In un'altra sequenza fulminante, una sfilata di idoli religiosi di ogni cultura, dal Cristo barocco a una statua tribale, viene accelerata fino a culminare nell'immagine di un'uniforme zarista. Il messaggio è un sillogismo visivo: Dio è Potere, il Potere è oppressione. È un'aggressione iconoclastica che ricorda la foga iconoclasta delle avanguardie futuriste, un tentativo di fare tabula rasa del passato simbolico per costruire un nuovo linguaggio.

Per comprendere la radicalità di Ottobre, bisogna collocarlo nel suo brodo primordiale: il modernismo degli anni Venti. Mentre a Dublino Joyce frantumava la sintassi del romanzo con l'Ulisse, e a Parigi Picasso decostruiva la prospettiva con il Cubismo, a Mosca Ejzenštejn faceva lo stesso con il tempo e lo spazio cinematografico. Ottobre non ha un protagonista nel senso classico del termine. O meglio, il suo protagonista è un'entità collettiva: la Massa. L'individuo scompare, fagocitato dalla marea della Storia. Ejzenštejn non cerca l'immedesimazione psicologica; al contrario, la rifugge. Utilizza la teoria del "tipage", scegliendo volti non per la loro abilità recitativa, ma per la loro capacità di incarnare un'intera classe sociale. Il borghese ha il volto flaccido e compiaciuto del borghese, l'operaio ha i tratti duri e spigolosi dell'operaio. Sono maschere, archetipi in movimento, pedine su una scacchiera la cui logica non è quella del dramma personale, ma dello scontro epocale tra forze storiche.

È in questo rifiuto dell'eroe singolo che il film compie la sua più grande rottura estetica, anticipando forme di narrazione corale che il cinema occidentale avrebbe esplorato solo decenni dopo, e mai con tale rigore ideologico. Non c'è un Luke Skywalker che guida la Ribellione; c'è la Ribellione stessa, un organismo brulicante e polimorfo che rovescia le statue degli zar come un Golem risvegliato. La sequenza dell'innalzamento del ponte levatoio, che separa i quartieri operai dal centro, è emblematica: il cadavere di una donna e un cavallo bianco restano penzoloni nel vuoto, un'immagine straziante che trasforma un'azione meccanica in una metafora potentissima della divisione di classe e della violenza del potere. È un cinema che non racconta, ma argomenta. Ogni taglio di montaggio è un'affermazione, ogni composizione un'ipotesi.

L'aneddoto più vertiginoso, e meta-testualmente più affascinante, riguarda la celeberrima sequenza dell'assalto al Palazzo d'Inverno. La rappresentazione di Ejzenštejn, con migliaia di comparse che si riversano nella piazza e sciamano attraverso i cancelli, è così potente, così cinematograficamente "reale", da aver soppiantato l'evento storico stesso. La presa del palazzo, nella realtà, fu un'operazione molto meno caotica e spettacolare. Eppure, l'immagine che abbiamo oggi di quella notte è quella creata da Ejzenštejn. Il cinema non ha solo documentato la rivoluzione; ne ha scritto la mitologia, ne ha forgiato l'iconografia. È un cortocircuito ontologico spaventoso e sublime: la finzione che diventa più vera del vero, un simulacro che si sostituisce alla realtà. Un'operazione di creazione di consenso e memoria storica che fa impallidire i tentativi più smaccati di Hollywood e che solleva interrogativi profondi sulla natura stessa della rappresentazione storica.

Certo, Ottobre è un film ferocemente di parte, un affresco febbrile e non un saggio storiografico. È propaganda, nel senso più nobile e al contempo più problematico del termine. La sua produzione stessa fu un campo di battaglia politico: commissionato quando Trockij era ancora una figura centrale della rivoluzione, il film dovette essere rimontato in fretta e furia dopo la sua caduta in disgrazia, epurandolo da ogni inquadratura. Queste cicatrici, queste assenze, sono visibili nel tessuto del film, rendendolo un reperto archeologico non solo di un evento, ma anche delle purghe e delle lotte di potere che ne seguirono.

Eppure, giudicarlo solo su questo piano sarebbe come criticare la Cappella Sistina per la sua aderenza alla dottrina cattolica. La sua grandezza risiede altrove: nella sua sfrontatezza linguistica, nella sua fede incrollabile nel potere del cinema di plasmare il pensiero. Sequenze come quella delle mitragliatrici che "parlano" contrapposte a una balalaika sono pura poesia visiva, un linguaggio che Stanley Kubrick avrebbe riscoperto quasi quarant'anni dopo nel montaggio astrale di 2001: Odissea nello spazio. Quando Kubrick passa dall'osso scagliato in aria dall'ominide all'astronave in orbita, sta usando la stessa identica logica del montaggio intellettuale di Ejzenštejn: creare un'idea (il progresso tecnologico come arma) attraverso la collisione di due immagini distanti nel tempo e nello spazio.

Ottobre non è un film facile. È denso, a tratti ostico, esige un'attenzione totale. Non offre il conforto di una trama lineare o di personaggi a cui affezionarsi. Chiede allo spettatore di diventare un collaboratore, di completare attivamente il circuito di senso che il regista ha innescato. È un fossile vivente di un'utopia, quella in cui cinema e rivoluzione potevano marciare di pari passo, in cui una nuova forma d'arte poteva contribuire a creare un nuovo tipo di essere umano. Quell'utopia è forse fallita, ma la sua eco cinematografica risuona ancora con una potenza formale che lascia senza fiato. È un manifesto urlato attraverso un megafono visivo, un trattato di semiotica scritto con la luce e l'ombra. Non si "guarda" Ottobre. Si subisce il suo assalto intellettuale, e se ne esce cambiati, con la consapevolezza che il cinema, a volte, può davvero essere la più bella e la più pericolosa delle armi.

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