Quando una donna sale le scale
1960
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Regista
Ogni sera, Keiko Yashiro compie un rito. Un'ascensione. Sale una rampa di scale che la conduce dal mondo reale, quello degli affitti da pagare e della solitudine di un piccolo appartamento, al suo palcoscenico: un lussuoso bar nel quartiere Ginza di Tokyo. Lassù, cessa di essere Keiko, la vedova trentenne intrappolata in un limbo economico e sociale, e diventa "Mama", la radiosa, impeccabile padrona di casa che dispensa sorrisi, versa sakè e intrattiene facoltosi uomini d'affari con una grazia che è tanto un'armatura quanto una performance. In questa singola, ripetuta azione – il salire le scale – il regista Mikio Naruse distilla l'essenza stessa di Quando una donna sale le scale, un capolavoro crepuscolare del 1960 che si erge come uno dei vertici più alti e spietatamente onesti del cinema giapponese e, osiamo dire, del cinema tout court.
Keiko è un Sisifo in kimono, la cui roccia è il proprio sorriso forzato. La sua esistenza è un funambolico esercizio di equilibrio: mantenere la propria dignità senza cedere alle lusinghe di diventare l'amante di un ricco protettore, risparmiare abbastanza per aprire un piccolo locale in proprio senza cadere nella trappola dei debiti, e navigare le gelosie e le rivalità delle altre hostess, ognuna impegnata nella propria, disperata scalata. Naruse, un maestro spesso relegato nell'ombra dei suoi contemporanei più celebrati in Occidente, Ozu e Mizoguchi, qui scolpisce il suo manifesto. Se Ozu è il poeta della serena accettazione del ciclo della vita (il mono no aware), e Mizoguchi il cantore della tragedia femminile su una scala epica e quasi spettrale, Naruse è il cronista della lenta, inesorabile erosione. Il suo è un cinema del logoramento, un'indagine quasi clinica sulla fatica di vivere, dove il dramma non esplode in grandi gesti, ma si accumula granello dopo granello, come sabbia in una clessidra che segna non il tempo, ma l'esaurimento della speranza.
Il film è un precipitato chimico del Giappone del dopoguerra, in bilico tra le macerie emotive del passato e il febbrile miraggio del boom economico. La Ginza di Naruse è un paesaggio dell'anima che ricorda le tele di Edward Hopper: un mondo di luci al neon, vetrine scintillanti e promesse di modernità che serve solo a rendere più acuta e profonda la solitudine dei suoi abitanti. Keiko, interpretata da una Hideko Takamine che offre qui una delle performance più sublimi e strazianti della storia del cinema, è una figura intrappolata tra due epoche. Indossa il kimono tradizionale, simbolo di un'eleganza e di un decoro passati, ma lo fa per vendere un'illusione moderna, un'intimità a pagamento in un contesto puramente capitalista. Non è una geisha, la cui arte era codificata da secoli di tradizione; è un'imprenditrice di se stessa nel mercato spietato delle relazioni umane.
La sceneggiatura di Ryuzo Kikushima, collaboratore abituale di Kurosawa, è un miracolo di sottigliezza e complessità psicologica. Ogni dialogo è a doppio taglio, ogni sorriso nasconde un calcolo, ogni gesto di gentilezza è una potenziale transazione. Gli uomini che circondano Keiko non sono mostri, ma piuttosto un campionario delle debolezze e delle ipocrisie del patriarcato. C'è il manager della banca che le promette un prestito in cambio dei suoi favori, l'industriale sposato che le offre una vita da mantenuta, e persino il giovane protetto che sembra amarla, ma la cui devozione si rivela fragile e opportunista. La grandezza del film sta nel rifiutare facili categorizzazioni. Keiko non è una vittima passiva; è una stratega acuta, una donna che conosce le regole del gioco e cerca disperatamente di trovare una falla nel sistema per poter vincere. Ma il sistema, sembra dirci Naruse con il suo pessimismo lucido e quasi scientifico, è progettato per non avere falle.
Visivamente, Naruse è un maestro della composizione claustrofobica. I suoi personaggi sono spesso incorniciati da porte, finestre, paraventi, come creature in gabbie eleganti. La macchina da presa rimane a un'altezza che ci rende osservatori intimi ma impotenti, catturando le micro-espressioni che tradiscono la maschera di Keiko. Il momento in cui, dopo una serata estenuante, si toglie il trucco nel suo modesto appartamento, non è solo un gesto di routine, ma un vero e proprio atto di deposizione delle armi, un ritorno a un sé vulnerabile che il mondo esterno non deve mai vedere. In questi istanti, la performance di Hideko Takamine raggiunge un diapason quasi insostenibile: il suo volto, liberato dal sorriso di servizio, diventa una mappa di stanchezza, delusione e resilienza quasi inconcepibile. È impossibile non pensare alla Gena Rowlands dei film di Cassavetes, un'altra attrice capace di mostrare tutte le crepe dell'anima femminile sotto pressione, ma dove Rowlands esplode, Takamine implode, con una dignità che rende la sua sofferenza ancora più commovente.
C'è un'analogia letteraria che si impone con forza: quella con i drammi di Anton Čechov. Come i personaggi cechoviani, le hostess di Naruse sognano una vita diversa, un'esistenza altrove – aprire un piccolo ristorante, sposarsi per amore, fuggire dalla città – ma rimangono impantanate nelle sabbie mobili del presente. La loro tragedia non è la morte o la rovina spettacolare, ma la constatazione che domani sarà esattamente come oggi. E dopodomani pure. Il finale del film è uno dei più potenti e desolanti mai concepiti. Dopo una serie di fallimenti, tradimenti e una breve, illusoria fuga, Keiko si ritrova esattamente al punto di partenza. La vediamo di nuovo, vestita in modo impeccabile, pronta per un'altra serata. Si ferma ai piedi delle scale, esita un istante, il suo volto è un abisso di disperazione controllata. Poi, un sorriso professionale le si stampa sulle labbra, come una maschera Nō che si indossa per la battaglia. E inizia a salire.
Questo finale circolare, questo scacco matto esistenziale, eleva il film da dramma sociale a parabola universale sul lavoro, sulla performance e sulla dignità. Quanti di noi, in forme diverse, salgono ogni giorno le proprie scale, indossando una maschera per affrontare un mondo che chiede un tributo emotivo in cambio della sopravvivenza? Quando una donna sale le scale non è solo la storia di una hostess di Ginza nel 1960; è un haiku di disperazione urbana, un'analisi spietata della commodificazione dei sentimenti e un monumento alla tenacia silenziosa di chi continua a salire, anche quando sa che in cima alla scala non c'è nessuna salvezza, ma solo un'altra rampa da affrontare. Un'opera di perfezione assoluta, dolorosa e indimenticabile, che conferma Mikio Naruse non solo come un gigante del cinema giapponese, ma come uno degli esploratori più acuti e compassionevoli della condizione umana.
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