Roma, ore 11
1952
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Regista
Una scala non è mai soltanto una scala. Nel cinema, meno che mai. Può essere il teatro di una discesa nell'incubo edipico per Norman Bates, il campo di battaglia tra gangster e contabili per De Palma, o la culla di una rivoluzione proletaria per Ėjzenštejn. In Roma, ore 11 di Giuseppe De Santis, la scala di un palazzo umbertino di Via Savoia diventa qualcosa di più: è l'architrave fisico e metafisico del film, un asse verticale su cui si arrampicano le speranze di un'intera generazione e dal quale precipitano, in una cascata di calce e urla, le illusioni di un'Italia che ancora non sa di essere alla vigilia di un miracolo.
Il film si apre come un buco nero narrativo: il crollo è già avvenuto. De Santis, con un'intuizione che tradisce la sua profonda comprensione del linguaggio cinematografico americano e del noir, sceglie di partire dalla fine, dal disastro. La cronaca – un fatto realmente accaduto il 15 gennaio 1951 – viene trasfigurata in un prologo da tragedia greca. Da questo epicentro di macerie, la narrazione si espande a ritroso, come un'onda d'urto temporale, per raccogliere i frammenti di vita che hanno condotto duecento donne su quella scala maledetta, tutte in lizza per un unico, misero posto da dattilografa. È una scelta strutturale che eleva il film ben al di sopra del semplice documento neorealista. De Santis non si accontenta di pedinare la realtà come Zavattini avrebbe teorizzato nella sua forma più pura; la smonta e la ricompone in un mosaico polifonico, quasi un romanzo modernista per immagini. Se il neorealismo di De Sica è un'elegia sussurrata sulla solitudine dell'individuo (Ladri di biciclette), quello di De Santis è un'opera corale, una sinfonia assordante di voci femminili che si sovrappongono, si combattono e infine si fondono in un unico lamento.
In questo, Roma, ore 11 è forse il film più vicino, per spirito e ambizione strutturale, a certi esperimenti del modernismo letterario, da Manhattan Transfer di John Dos Passos a Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin. Come in quei romanzi, il vero protagonista non è un singolo individuo, ma la città stessa, o meglio, una sua sezione trasversale, un campione di umanità colto in un momento di crisi. Le storie delle aspiranti dattilografe – la domestica incinta interpretata da una giovanissima e straordinaria Lea Padovani, la prostituta che cerca una via di fuga (Lucia Bosè), la moglie di un operaio disoccupato (Carla Del Poggio), la figlia di un portiere che sogna il cinema – sono schegge di un unico, grande racconto: la disperazione economica come livella sociale. Nobili decadute, borghesi impoverite e proletarie si ritrovano fianco a fianco, spogliate delle loro differenze di classe dalla necessità. La scala diventa così un diagramma sociale in movimento, una Babel di speranze dove ogni gradino rappresenta un'illusione e la cima una salvezza irraggiungibile.
De Santis, allievo di Luchino Visconti e critico cinematografico prima che regista, possiede uno sguardo che è al contempo analitico e passionale. Non è un entomologo del reale, freddo e distaccato. È un orchestratore, un demiurgo che non teme l'ipertrofia melodrammatica, anzi, la utilizza come un reagente chimico per far emergere la verità emotiva dei suoi personaggi. La sua macchina da presa non si limita a osservare; fruga, si insinua tra i corpi, cattura sguardi, isola dettagli con la precisione di un pittore fiammingo. La composizione delle inquadrature, specialmente nelle scene di massa sulla scala, ha una complessità quasi barocca, un horror vacui che traduce visivamente la claustrofobia esistenziale delle protagoniste. Ogni volto è una storia, ogni sussurro una preghiera. È un cinema fisico, epidermico, che ricorda la carnalità disperata di un altro suo capolavoro, Riso Amaro, ma qui la sensualità lascia il posto a una stanchezza ancestrale, a una fame che non è solo di cibo, ma di dignità.
L'analogia più audace, forse, non è con il cinema coevo, ma con l'arte rinascimentale. La scena del crollo, con quel groviglio di corpi che precipitano, non può non evocare certe deposizioni pittoriche, un caos ordinato dal dolore che ricorda la composizione de La Zattera della Medusa di Géricault. De Santis mette in scena una deposizione laica, dove a essere deposta dalla croce della Storia non è una figura divina, ma un intero corpo sociale femminile. E come in un polittico medievale, ogni pannello-flashback ci mostra la vita di una santa minore, di una martire quotidiana la cui unica colpa è desiderare un'esistenza normale. Questo approccio corale è un dispositivo narrativo di una modernità sconcertante. Anni prima che Robert Altman lo elevasse a suo marchio di fabbrica, De Santis dimostra di aver compreso che la Storia non è fatta dagli eroi, ma dalla somma di infinite, anonime biografie. Il film diventa un sismografo dell'anima collettiva, registrando le scosse telluriche che attraversano il sottosuolo di una nazione proiettata verso la ricostruzione ma ancora impantanata nelle sue miserie.
Interessante è anche il meta-discorso che il film intesse. Una delle ragazze, interpretata da una debuttante Elena Varzi, sogna di fare l'attrice e si presenta al colloquio recitando una scena. È un cortocircuito vertiginoso: un'attrice (non professionista, in linea con i dettami del movimento) che interpreta un'aspirante attrice, all'interno di un film che a sua volta utilizza attori professionisti e non per raccontare una storia "vera". De Santis sembra riflettere sulla natura stessa del neorealismo, sulla sua capacità di assorbire e rielaborare il reale, sulla linea sottile che separa la testimonianza dalla messa in scena. Non è un caso che nel cast figurino nomi come Massimo Girotti e Raf Vallone, icone di un cinema più strutturato, accanto a volti presi dalla strada. Questa fusione è la cifra stilistica del regista, il suo personale superamento della dicotomia tra "realtà" e "spettacolo".
La tragedia di Via Savoia diventa così, nelle mani di De Santis, più di un semplice fatto di cronaca. Diventa il sintomo di una patologia nazionale, un incidente che squarcia il velo di ottimismo forzato del dopoguerra per mostrare la fragilità delle fondamenta su cui si stava costruendo il futuro. Il crollo della scala è il crollo di un sistema di valori, il fallimento di una promessa. E il finale, con le scarpe sparse tra le macerie – sineddoche potentissima delle vite spezzate – è un'immagine che si imprime nella memoria con la forza di una fotografia di Robert Capa. Roma, ore 11 non è solo un capolavoro del neorealismo; è la sua crisi, la sua espansione, la sua febbrile e magnifica contaminazione. È un film che, come la sua scala, sorregge un peso enorme – storico, sociale, umano – e riesce a non crollare, trasformando il rumore della cronaca nel canto universale e straziante della condizione umana.
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