Trionfo della volontà
1935
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Regista
L'aereo di Adolf Hitler squarcia le nuvole wagneriane sopra Norimberga come la navicella di un messia intergalattico che arriva per redimere un pianeta. Non è un documentario, è un mito della creazione. Non è la cronaca di un evento, è la sua trasfigurazione in escatologia politica. Leni Riefenstahl, con Trionfo della volontà, non si limita a filmare la realtà; la forgia, la piega, la costringe a genuflettersi di fronte alla potenza della sua macchina da presa. Guardare questo film oggi è un'esperienza che scinde lo spettatore: da un lato l'intelletto riconosce la grammatica di un'ideologia mostruosa, dall'altro la retina viene sedotta da una bellezza formale tanto perfetta quanto terrificante. È un veleno distillato in un calice di cristallo purissimo, un'opera la cui analisi è tanto necessaria quanto perturbante.
Il film è la cronaca del sesto congresso del Partito Nazionalsocialista nel 1934, un evento meticolosamente orchestrato per proiettare un'immagine di unità e potere titanico, soprattutto all'indomani della "Notte dei lunghi coltelli" che aveva purgato le file delle SA di Ernst Röhm. La Riefenstahl, dotata di un budget illimitato e di una libertà creativa assoluta – più di trenta cineprese, una troupe di centoventi persone, chilometri di binari per carrelli, ascensori, gru – non si limita a registrare. Lei compone. Ogni inquadratura è un'architettura. Le masse umane non sono persone, ma elementi geometrici, tessere di un mosaico vivente che compongono svastiche, aquile e linee rette. È il sogno futurista di Marinetti che prende corpo, l'esaltazione della macchina e della folla disciplinata, ma privato di ogni anarchia avanguardista e ricondotto a un ordine classicheggiante, quasi romano. Albert Speer costruiva con la pietra, Leni Riefenstahl costruiva con la carne.
La sua sintassi cinematografica è un punto di non ritorno. Se Sergej Ejzenštejn, in La corazzata Potëmkin, aveva teorizzato un montaggio dialettico, basato sullo scontro tra inquadrature per generare un'idea nella mente dello spettatore, la Riefenstahl impiega un montaggio ritmico, quasi lirico, che non genera conflitto ma sintesi, assorbimento. I volti estatici dei giovani della Gioventù Hitleriana si fondono con le fiamme delle torce notturne; il dettaglio di una mano che saluta si dissolve nell'oceano di braccia tese; il suono di migliaia di stivali che marciano all'unisono diventa la pulsazione cardiaca di un'intera nazione. È un Gesamtkunstwerk, un'opera d'arte totale in cui l'individuo scompare, fagocitato dal sublime della collettività. È lo stesso sublime terrificante che i romantici cercavano di fronte a una tempesta o a una catena montuosa, ma qui la natura è stata sostituita dallo Stato, dalla Parata, dal Partito. L'uomo non è più un puntino di fronte all'infinito di Dio, ma un atomo nell'infinita massa del Volk.
È impossibile non pensare a Metropolis di Fritz Lang. Le coreografie umane di Riefenstahl sembrano la realizzazione politica delle visioni architettoniche di Lang, ma se in Metropolis la massa operaia era un'entità sotterranea e minacciosa, qui è glorificata, esposta alla luce del sole, trasformata nella manifestazione visibile della volontà del leader. La celebre difesa della regista – "È solo un documentario, tutta la realtà è lì" – è la più grande mistificazione della sua opera. Trionfo della volontà è la negazione del documentario; è una docu-fiction mitologica dove l'evento stesso è stato concepito e messo in scena per la cinepresa. Le torri di luce di Speer non servivano solo a illuminare il campo Zeppelin, servivano a creare cattedrali effimere per l'obiettivo della Riefenstahl. La realtà non precede il film, ma ne è la conseguenza. È un paradosso meta-testuale vertiginoso: un film che documenta un evento creato per essere documentato da quel film stesso.
L'eredità estetica di quest'opera è tanto insidiosa quanto innegabile. Senza le sue innovazioni nel campo delle riprese di massa, della fotografia aerea, dell'uso drammatico della musica e del montaggio ritmico, il cinema d'azione, i video musicali e persino la pubblicità non sarebbero gli stessi. La connessione più celebre e ironica è forse quella con Guerre Stellari. La scena finale de Una nuova speranza, con Luke e Han che ricevono le medaglie in un'enorme sala gremita di soldati allineati, non è altro che una citazione quasi letterale, spogliata della sua matrice ideologica, della chiusura di Trionfo della volontà. George Lucas, attingendo a un vasto serbatoio di iconografie del XX secolo, ha dimostrato involontariamente una verità sconcertante: la grammatica del potere è universalmente traducibile, e la sua estetica può essere sradicata dal suo contesto originario e riutilizzata per celebrare eroi galattici invece che dittatori. Questo dimostra la potenza formale del lavoro della Riefenstahl: la sua estetica è così pura e archetipica da poter essere "riciclata", un guscio vuoto pronto per essere riempito da qualsiasi contenuto.
Analizzare Trionfo della volontà è come studiare la planimetria di un tempio dedicato a un culto oscuro. Non si può negare la genialità dell'architetto, la perfezione delle proporzioni, l'eleganza delle linee. Si può ammirare la perizia tecnica, la capacità di evocare un senso di trascendenza e di potere assoluto. Ma è un tempio costruito sull'annullamento dell'individuo, sulla deificazione di un'idea e di un uomo. Il film non argomenta, non persuade con la logica; seduce, ipnotizza, converte attraverso un'aggressione estetica calcolata. Le parole dei gerarchi – Hitler, Goebbels, Hess – sono quasi irrilevanti. Sono incantesimi, formule ritmiche il cui significato è secondario rispetto al loro effetto sonoro e alla reazione che provocano nella folla oceanica, che agisce come una cassa di risonanza emotiva.
Alla fine, Trionfo della volontà si erge come un monolite nero nella storia del cinema. Non è un film sul fascismo, è un film fascista nella sua essenza più profonda, nella sua struttura, nel suo respiro. È l'incarnazione cinematografica di un'ideologia che venera la forma sulla sostanza, l'ordine sul caos, la massa sull'individuo. La sua visione è un'allucinazione perfettamente controllata, un sogno di ordine che è l'anticamera di un incubo. Per questo va visto. Non per celebrarlo, ma per comprenderlo. Per disarmarlo. Per capire fino a che punto la cinepresa possa diventare l'arma più potente, capace non solo di riflettere il mondo, ma di crearlo, offrendoci una visione di paradiso che ha l'architettura precisa e agghiacciante di un inferno.
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