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Uccellacci e Uccellini

1966

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Pasolini ironico, sardonico, deliziosamente ilare, si dibatte in materie religiose e in tematiche misticheggianti, ma lo fa con una leggerezza che è pura audacia concettuale. In Uccellacci e Uccellini, il regista romano smantella il sacro con la stessa reverenza con cui l'aveva indagato in Il Vangelo secondo Matteo, infondendo in ogni fotogramma una dialettica frizzante tra fede e materialismo, tra trascendenza e cruda immanenza. Non è una dissacrazione fine a sé stessa, quanto piuttosto un’esplorazione, giocosa e al contempo profondamente seria, della spiritualità nell'era della secolarizzazione galoppante, un’indagine sulla possibilità di una “santità” terrena, sporca, intrinsecamente umana.

Un padre e suo figlio, i memorabili Totò e Ninetto Davoli, sono reclutati nell’esercito celeste di San Francesco da un corvo parlante e iniziano il loro pellegrinaggio sulla terra villana e corrotta. Questa premessa, che di per sé evoca la fabula morale, è il trampolino di lancio per una delle più acute e commoventi allegorie pasoliniane. Il corvo non è un mero espediente narrativo; è la voce stessa dell'intellettuale, la coscienza critica di Pasolini stesso, una sorta di filosofo illuminato che dispensa massime marxiste e digressioni sul "Protestantesimo" come forza storica e culturale, svelando le ipocrisie e le violenze celate sotto il manto della tradizione. La sua logorrea erudita contrasta comicamente e tragicamente con la semplicità quasi infantile dei due pellegrini, che, pur non comprendendo appieno le sottili argomentazioni, ne assorbono l'essenza con la sapienza innata del popolo. Questo triplice cammino – l'ideale, il popolare e il critico – si fonde in un unicum narrativo che è puro teatro dell'assurdo e al tempo stesso un'intensa riflessione sulla condizione umana.

Conosceranno le tristezze, le brutture e le angherie a cui sono sottoposti gli uomini semplici cercando di portare una parola di conforto. Ma è un conforto che spesso si rivela illusorio, una denuncia delle promesse mancate del progresso e della religione. La loro è una via Crucis senza redenzione finale, un peregrinare attraverso un'Italia in transizione, quella del boom economico che stava smaterializzando il "popolo" che Pasolini amava e studiava, trasformandolo in massa consumistica. Si muovono tra squallidi bordelli di periferia, campagne desolate e l'indifferenza di una società che sta perdendo la sua innocenza contadina per abbracciare un futuro incerto e, agli occhi del poeta, privo di sacralità.

Una visione sempre focalizzata sull’implicazione sociale, un occhio sempre puntato sulla gente più umile da cui sale la vividezza del narrato, la sua più candida forma. Questo film è un testamento della sua ossessiva attenzione al "sottoproletariato", alla parte più autentica e "pura" del paese, prima che fosse corrotta dalla modernizzazione. La narrazione, pur intrisa di surrealtà, mantiene una radicata adesione alla realtà tangibile, alla povertà non solo materiale ma anche spirituale, tipica del cinema pasoliniano che, pur abbandonando il neorealismo puro, ne conserva la carica di denuncia e l'amore per gli ultimi. È attraverso queste figure marginali, spesso anonime, che Pasolini rivela la sua più profonda commozione, un lirismo che si eleva dalla concretezza delle esistenze.

Una denuncia attraverso le immagini e la naturale forza lirica che ne scaturisce, come spesso avviene nell’opera pasoliniana. La scelta di un bianco e nero crudo, quasi documentaristico, dona alle sequenze un'aura atemporale e quasi archetipica, accentuando il contrasto tra la leggerezza della fiaba e la gravità dei temi trattati. Ogni inquadratura è una poesia visiva, un saggio di estetica che eleva il quotidiano a simbolo, il piccolo gesto a metafora universale. La regia è asciutta e precisa, eppure lascia trapelare un'emozione profonda, quasi una tenerezza per i suoi personaggi e per l'Italia che sta scomparendo.

Come nel Vangelo, anche in Uccellacci e Uccellini Pasolini appare attratto dall’afflato mistico che sale dalla Santità per poi dirigere questa tensione celeste verso la terra e i suoi bisogni più contingenti, le sue vicende più meschinamente terrene. Ma qui, la santità si incrina e si confonde con l'innocenza umana più che con la divinità. È la “teologia del corvo” che viene sfidata, la logica dell'intelletto che si scontra con la fame e la sete del corpo. Il finale, con il metaforico banchetto a base del corvo stesso, è un’immagine potentissima e cruda: il sapere (il corvo-intelletto) viene assorbito, ingoiato e metabolizzato, non come atto di sacralizzazione ma come necessità primaria, quasi a indicare l'impossibilità di una pura astrazione intellettuale di fronte alla fame e alla concretezza del mondo. È un atto di cannibalismo intellettuale, in cui la teoria deve cedere il passo alla sopravvivenza, o forse, in cui la teoria diventa carne e si fonde con essa.

Totò spinge la sua arte nel tragico, nel comico, nel vaudeville, con una leggerezza che toglie il fiato, quasi un ultimo, sublime canto del cigno. La sua performance è un capolavoro assoluto, una sintesi perfetta della sua maschera comica e della sua sorprendente capacità di veicolare una profonda malinconia, una saggezza popolare innata. Pasolini, con un'intuizione geniale e controcorrente, estrae da Totò l'essenza del "povero cristo" italiano, un archetipo che trascende la sua iconica comicità per farsi simbolo universale dell'uomo semplice, perennemente in bilico tra la speranza e la disillusione. La sua fisicità, i suoi sguardi, il suo incedere clownesco ma dignitoso, conferiscono al film una risonanza umana indimenticabile. La malattia che lo avrebbe portato via di lì a poco era già evidente, eppure Totò, con un'energia quasi ultraterrena, si dona completamente al ruolo, rendendo il suo personaggio una figura paterna, fragile e potente al contempo, un'ultima, commovente incarnazione di un'Italia che scompariva e di un tipo di cinema che sapeva ancora guardare negli occhi il mistero della vita e della morte. La sua presenza è un ponte tra il cinema popolare e l'arte d'autore, una lezione vivente su come la comicità possa elevarsi a filosofia, il sorriso al pianto.

Un film di rara bellezza, un'opera atipica e coraggiosa che non smette di interrogare, provocare e commuovere, confermando Pasolini come uno dei più grandi intellettuali e cineasti del Novecento italiano, capace di trasformare il dolore in poesia e la polemica in visione.

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